Bucciantini: Roma, cambia Garcia
La Roma non funziona. Può vincere molte partite (spesso lo fa) ma la sostanza della squadra è tenue, precaria. I segnali di forza sono stati lucenti ma discontinui, perché quasi sempre allacciati ai campioni, quasi mai a un concetto di squadra. I segnali di debolezza invece sono più strutturali: assegnarli alle lacune dell’organico (qualcosa, qua e là) è il modo più tonto di dispensare l’allenatore. Adesso che numeri e impressioni sono convocati allo stesso capezzale, è più cinico e semplice ragionare.
Garcia non ha la stoffa del profeta, come i tifosi giallorossi hanno capito da un pezzo, per l’ironia di quelli rivali. Anzi, le poche volte che ha tentato di gonfiare le attese (contro il Bayern, contro il Barcellona, o contro la Juventus nella corsa lunga) è riuscito solo a dilatare la delusione e l’inadeguatezza. Le parole per uscire da questi momenti d’imbarazzo sono state altrettanto superficiali, come nell’ultima vigilia quando la partita catalana è stata liquidata frettolosamente, come fosse indolore (e invece). In generale, la sua analisi della situazione è sempre approssimativa, quando non truccata: è come un reduce che parlando con un vecchio camerata apporta alle vicende vissute alcune varianti che ne aumentano la portata. Il vissuto della Roma, recente e datato, non è quello che ha in testa Garcia, forse inchiodato ai suoi primi magnifici mesi in Italia: fra campionato e coppe, ha giocato 47 partite nel 2015 (un anno intero, ormai) per 18 vittorie, 18 pareggi e 11 sconfitte. L’andatura è da squadra di medio-alto livello: è costante, non ci sono fraintendimenti. Non c’è grandezza, non c’è cambio di passo nemmeno dopo un mercato che - giudizio condiviso - metteva la Roma al primo posto dei pronostici estivi. Niente è irrimediabile: nonostante i 16 gol subiti in cinque partite di Champions, la qualificazione agli ottavi è ancora nelle mani della squadra. Il vertice del campionato è lì, vicino, qualunque sia il risultato di Napoli-Inter. Ma l’impressione è che la Roma non riesca a diventare forte, a viaggiare di un’inerzia maggiore: tutto è faticoso, è approssimativo. C’è un’assenza evidente di strategia, prima ancora che di tattica. Dov’è la linea di gioco della Roma? Il primo anno era bassa (dove De Rossi si saldava ai centrali di difesa, che avevano un grande senso dell’anticipo e sapevano ri-giocare la palla): lì nasceva l’azione della Roma, che contrattaccava palla al piede (con Gervinho) e senza palla, con Maicon, Florenzi e Strootman: quella dell’olandese è l’assenza più grave, per la sua capacità di essere importante anche con pochi palloni a partita e di squilibrare gli altri con i tempi di movimento. Queste antiche e perdute volate erano assecondate dalla visione di calcio di Totti e di Pjanic (allora ridotto, rispetto ad oggi, ma non ancora in grando di riempire la partita come l’altro). Era una squadra semplice ma potente e l’assenza del centravanti classico accorciava la squadra (indietro) con disinvoltura. Sapeva cosa fare e come farlo.
Quella squadra non esiste più. Salah e Dzeko (sommati a Gervinho) sono due aggiunte che hanno addirittura impigrito l’allenatore fino alla delega in bianco all’individualità, perfino nella concezione di territorialità, che si sviluppa solo nell’ardore sfrenato di Nainggolan, divoratore di metri quadri d’erba e anche delle armonie di gioco. Con quegli attaccanti - così naturalmente propensi a finire dentro l’area avversaria per scorribande proprie, per indole e per approfittare del fisico - bisognava trascinare in avanti tutta la squadra, pensare il campo con coraggio ma seguire questo calcolo con una tattica robusta e tenace: allenare in pratica la Roma a giocare partite organiche d’attacco. La squadra è invece un ibrido che per la suddetta naturalezza si sbilancia e si allunga, perché Garcia crede sempre di avvantaggiarsi nel recupero di palla sulla mediana, lontano dalla porta: tanto poi Gervinho e Salah ribaltano il campo: questo il calcolo. Ma i contropiede palla al piede non sono corali come quelli di squadra. Così facendo (e sperando) la Roma ha impoverito le linee di passaggio, ormai sono inconsistenti, banali. La densità è compromessa dalle caratteristiche dei giocatori e dal mancato lavoro del tecnico. E, come si è visto nelle ultime partite, una volta persi per normali acciacchi i due scardinatori individuali delle difese altrui, la Roma è nuda, ormai disabituata alla manovra d’attacco verticale e corale, e affidata ad un “resto” che non è stato sviluppato, tanto ci pensavano gli attaccanti (o Pjanic, da fermo).
Inoltre – per vederla dall’altra parte del campo – la Roma insiste a perdere palla nelle zone chiuse del campo, dove per gli avversari è più facile organizzare la ripartenza. Lo fanno anche Gervinho e Salah, che si buttano dentro, in sfide megalomani. Ma lo fanno anche De Rossi con le sue verticalizzazioni scontate, e gli altri quando – smarriti – cercano Dzeko e solo lui: per di evitare la ressa, il centravanti con l’Atalanta ha ricevuto palla spesso sui lati. A quel punto i contropiedi degli altri erano più complessi, ma l’azione della Roma era vana, mancando al centro dell’attacco chi potesse valorizzarla (incursioni da centrocampo: zero).
La Roma attacca male e in questi spazi, offerti in modo ammiccante, tutte le rivali riescono a creare danni e infatti nemmeno le cosiddette “provinciali” rinunciano al tridente, sapendo di poterlo usare. Chi ha i mezzi per farlo, come il Barcellona, abusa. Ma nessuna squadra è “fuori” partita con la Roma. Questo il limite incontestabile e anche più tragico: non c’è mai “impatto”, padronanza, amministrazione. La produzione di reti che oggi Garcia rivendica è spontanea più che organizzata. La qualità degli attaccanti e dei centrocampisti produce (in questa Serie A) molto, ma è stato delittuoso trascurare una sistemazione ordinata della squadra, affidandosi in zone del campo decisive a mattatori con poco senso del prossimo (anche il più continuo, Nainggolan, soffre di eccesso, sottovalutando la ricerca del gioco d’insieme). Serviva un’imposizione forte del tecnico, e soprattutto un lavoro maniacale, ossessivo, incessante per piegare una selezione di talento a un progetto condiviso, non snaturato ma almeno presentabile.
Due sole gare sono riuscite logiche a Garcia: con la Juventus, per sovrabbondante determinazione complessiva, dai giocatori ai tifosi, e contro la Fiorentina, perché i viola costrinsero i giallorossi a ridosso del loro portiere: giocoforza, la Roma fu compatta. In difesissima, ma compatta e corta. I difetti di organico (negli esterni bassi, per esempio) sono alibi da trascurare: contro l’Atalanta è stata imbarazzante la facilità di tenuta prima e di palleggio poi della mediana dei lombardi. Gioco tessuto da Cigarini, Grassi, Kurtic, va ricordato, e verso i movimenti schematici ma sicuri di Moralez, Denis e Gomez. La Roma con Nainggolan, Pjanic e De Rossi non è mai riuscita a possedere il centrocampo, a tramare in modo limpido da spaventare gli altri. Se Salah e Gervinho sono capaci di giocare da soli, Iturbe e Iago Falqué vanno intelaiati dentro un concetto, e serviti con i tempi giusti, valorizzati con la tattica. Infatti, sono costantemente assenti dalla polpa della partita.
La Roma è una squadra spontanea, che non riesce mai a governare la partita: la subisce, anche dal punto di vista emotivo. I momenti di forza sono così sfacciati e intermittenti da alimentare solo rimpianti. I 33 gol subiti in soli 3 mesi di agonismo sono una sentenza: la squadra manca di personalità individuale e collettiva. Sabatini ha messo a disposizione del tecnico un organico per vincere, ma niente può accadere senza una visione del gioco e del campo. La proprietà e la dirigenza dovrebbero proteggere i loro investimenti e i sogni dei tifosi, alimentati con ottimi argomenti: in breve, dovrebbero valutare con meno sudditanza e meno tremore il lavoro quotidiano del tecnico, e affidare la squadra a chi fa calcio sul campo e non in sala stampa. La classifica corta e la Champions aperta possono consigliare attesa e prudenza, ma queste situazioni sono anche opportunità per cercare un protagonismo nuovo: cambiando Mazzarri con Mancini l’Inter perse sicuramente qualcosa nel breve periodo, ma oggi pensa (forse con ragione) di aver incassato qualcosa alla distanza. È un esempio che non pretende di essere trasportabile nella capitale.
È chiaro che la valutazione a Trigoria verrà fatta “pronosticando” quanto possa ancora raccogliere Garcia da questa stagione, così promettente, così aperta. Ma è già un calcolo minore, deludente. E guardare queste strade stringersi, fino a diventare vicoli, sarà poi una colpa indivisibile da quella del tecnico stesso. Dopo tanti anni al vertice, i secondi posti (anche splendidi) con Spalletti, Ranieri, e poi Garcia, la Roma era l’ereditiera diretta della Serie A, una volta rasserenata e saziata la Juventus. Questa sensazione doveva essere spesa con fermezza, come atto di dominio. Ma doveva seguire una costruzione di squadra che permeasse di questa convinzione tutto l’organico e tutto l’ambiente. Non a parole, non suggestivamente. Non è successo, ed era il vantaggio – sprecato - della Roma sulle altre.
Marco Bucciantini