Calciomercato.com

  • Getty Images
    Bobby Charlton, l'addio di un mito: dalla tragedia aerea di Monaco al Mondiale vinto in Inghilterra

    Bobby Charlton, l'addio di un mito: dalla tragedia aerea di Monaco al Mondiale vinto in Inghilterra

    • Renzo Parodi
    Alto non era e bello neppure. Anzi. Un metro e settanta appena, fisico tracagnotto, gambe forti e muscolose, torace ampio e quadrato, il prototipo fisico della gente delle sue, parti, Ashington, nel Northumberland, quasi al confine con la Scozia. Gente di miniera (il padre Robert era appunto un minatore), gente da pub, ruvida e di poche parole. E quella pelata, malamente mascherata in età adulta da un riporto da geometra. Un calciatore quello? Ma dai… Eppure quel tizio qualunque in giacca e cravatta, indossati pantaloncini, maglietta e scarpini da calcio si trasformava in un dio, il dio del pallone. Si chiamava Robert Charlton, detto Bobby, e ha battezzato un'epoca del calcio inglese, pardon un'epopea; nel segno deli Red Devils, il mitico Manchester United, la Juventus dell'Isola, la squadra più amata e più odiata perché spesso – e con lui quasi sempre – irraggiungibile. E invincibile. 

    BOBBY CHARLTON SI SPEGNE A 86 ANNI

    Bobby Charlton, anzi sir Bobby Charlton, insignito del titolo di baronetto dell'Impero britannico nel 1994 dalla regina Elisabetta II, è volato via raggiungendo nel terzo anello celeste gli altri miti del football britannico che lo avevano preceduto, senza mai scalfire la sua fama. Si è spento a 86 anni appena compiuti, ma ci aveva lasciati da qualche tempo, imprigionato da un male che toglie la memoria di sé il contatto con il resto del mondo. 
    A dispetto di quel fisico che rimandava a umili fatiche manuali, anziché a tonanti finezze calcistiche, Bobby Charlton è stato davvero un mito, e non soltanto per i fans inglesi, che aveva deliziato nel corso di una gloriosa, lunghissima carriera principalmente compiuta indossando la maglia rossa dello United (606 presenze e 199 gol dal 1956 al 1973) e con la nazionale inglese, onorata da 106 caps e 49 reti. Elegante, solido, perspicace, dotato di quel senso del gioco che contraddistingue i fuoriclasse, Charlton è stato un calciatore universale nell'espressione del gioco, decisamente avanti rispetto ai tempi. Attaccante di talento all'occorrenza, sfruttava le sue doti fisiche esaltandole con un tiro potente e preciso. Centravanti dunque ma pure e soprattutto mezz'ala d'attacco. Intuiva lo sviluppo del gioco facendosi trovare al posto giusto al momento giusto. Fosforo e gambe, intelligenza e atletismo puro. Era nato un campione. 

    La sua carriera, sbocciata precocemente nelle giovanili del Manchester United a soli 16 anni, trovò sbocco neppure ventenne in quella che sarebbe stata destinata a diventare la squadra dei Busby Babies, i ragazzi guidati da un altro mito del calcio d'Oltremanica, il santone Matt Busby. Charlton segnò due gol nella partita di esordio contro… il Charlton (scherzi del destino) e non si sfilò più la maglia da titolare e in quel 1956 il, Manchester si laureò campione d'Inghilterra e Charlton spiccò il volo. 
    La sua consacrazione però giunse a seguito di una terribile tragedia. L'aereo sul quale viaggiava la prima squadra del Manchester United si schiantò al suolo al terzo tentativo di decollo sulla pista coperta di neve e fango dell'aeroporto di Monaco di Baviera. Era il 6 febbraio 1958. Dai rottami dell'aereo vennero estratte 23 vittime tra loro otto calciatori dei Red Devils. Il più forte di tutti si chiamava Duncan Edwards, aveva appena 23 anni e portava già la fascia di capitano della squadra. Edwards sopravvisse quindici giorni in ospedale e morì a causa delle ferite riportate nell'incidente. Quella tragedia che ricordò la tragedia del Grande Torino perito a Superga, privò il calcio inglese e mondiale di un sicuro campione. Duncan Edwards se possibile era ancora più forte e talentuoso di Charlton e fu lo stesso Charlton a riconoscerlo. Con una sportività che lo rese celebre e ancora più rispettato, anche dagli avversari, da autentico gentleman britannico innamorato del fair play. "Duncan era fisicamente imponente – lo celebrò Charlton in morte – era potente e aveva una fantastica intelligenza calcistica. Era un calciatore completo, sapeva usare entrambi i piedi ed effettuare lanci lunghi, passaggi corti. Faceva tutto istintivamente". Riletto a posteriori quel cavalleresco riconoscimento postumo appare una sorta di autoritratto da parte di Charlton. 

    Non sapremo mai se Edwards avrebbe toccato vette di gioco superiori a quelle attinte da Charlton. Sappiamo però che Busby decise di affidare proprio a Bobby la fascia di capitano lasciata in eredità da Edwards. Charlton onorò quella scelta. Accanto al fratello Jackie – scomparso nel 2020, lui si l'epitome del calciatore della vecchia scuola inglese, alto e fisicamente prestante, centromediano del Leeds United - Bobby inaugurò in nazionale la leggenda dei fratelli Charlton. Sublimandola con la vittoria nel Mondiale domestico del 1966, gli annali ricordano la finale contro la Germania Ovest il gol fantasma di Hurst convalidato dall'arbitro Dienst (il pallone non aveva oltrepassato la linea di porta) che spianò la strada ai Leoni di Inghilterra. Il bianco e nero della tv di allora celebrò una formazione entrata nella storia, i nomi correvano di bocca in bocca in quell'estate lontana: Banks, Cohen, Wilson; Stiles, Jackie Charlton, Moore; Ball, Hunt, Bobby Charlton, Hurst, Peters. In panchina sir Alf Ramsey. Charlton aveva 29 anni e all'apparenza pareva un vecchio, ma che sinfonie suonava col pallone fra i piedi… Non fu il capitano della squadra campione, l'onore toccò a Bobby Moore, però Charlton si rifece guidando i Red Devils alla vittoria di tre campionati inglesi e alla storica vittoria (la prima di un club inglese) della coppa dei campioni del 1968, strappando il trofeo al Benfica di un altro mito intramontabile, Eusebio. Nel frattempo Charlton aveva vinto il Pallone d'oro 1966 precedendo proprio Eusebio, per un solo voto. 

    A conti fatti sir Charlton si colloca allo stesso livello delle stelle di prima grandezza di quel calcio che tanto ci manca e che rimpiangiamo, Best, Eusebio, Law, Beckenbauer, i nostri Riva, Rivera e Mazzola e qualcuno azzardò persino il paragone impossibile, quasi un'eresia, accostandolo al sommo Di Stefano, la Saeta Rubia che incoronò il Real Madrid nell'Olimpo del pallone. Personalmente incrociai Charlton una sola volta, tanti anni fa, lui aveva appeso le scarpette al chiodo e faceva il testimonial, si direbbe oggi, di sé stesso e della Federcalcio inglese. Lo osservai con un certo agio nei pochi secondi trascorsi vis a vis, all'interno dell'ascensore che ci proiettava in vetta al grattacielo più alto di Genova (e d'Italia fino alla guerra, progettato da Marcello Piacentini). Mi sorrise e mi parve, in quel momento, una persona familiare con la quale avevo trascorso qualche ora bella ed emozionante della mia gioventù. Ed era proprio vero. In quell'estate lontana del 1966 fu lui, Bobby Charlton, non la scalcagnata Italia di Mondino Fabbri maltrattata dalla Corea del Nord, il mio idolo di tredicenne. Mi aveva preso il cuore e mi fece sognare. Lunga vita a te, Bobby, pensai uscendo da quell'ascensore. Dopotutto, entrambi siamo stati accontentati dall'imperscrutabile contabilità che ci attende tutti al varco. 
     

    Altre Notizie