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  • Bernardini: vorrei essere nato granata

    Bernardini: vorrei essere nato granata

    Ci sono giorni e certe lune che, calcisticamente, vorrei essere diverso. Non sempre, si capisce. Ma una volta all’anno sì. Come oggi, per esempio. Potermi sentire una “cosa a parte” nella già speciale tribù del pallone planetario. Un “fenomeno paranormale”, addirittura, che vive in una città anche lei molto incline alla pratiche esoteriche, Torino appunto, e che può concedersi il lusso di conversare con un gruppo di giovani eroi i quali, da tempo, hanno superato le Colonne d’Ercole per trasferirsi, loro malgrado, nella leggenda. Insomma vorrei essere “torinista” oltreché torinese e juventino quale sono. Perché oggi, specialmente, provo una sottile forma di invidia per chi può dichiararsi granata. Lui, insieme con il resto del popolo al quale appartiene, ha infatti ricevuto in dono il regalo più bello che potesse aspettarsi. Non parlo del pareggio con il Milan, seppure agguantato dai ragazzi di Ventura con spirito leonino, ma della cerimonia ufficiale per la posa della prima pietra con la quale ieri mattina è stato dato il via ai lavori per la ricostruzione del Vecchio Filadelfia.

    Uno stadio, nel mezzo della città e dove un tempo pulsava forte il cuore della Torino operaia, che non è soltanto uno stadio. Un tempio vero e proprio sul quale si affacciano le finestre e i balconi di case forse non più popolari in senso stretto ma egualmente abitate da coloro che hanno la fortuna di poter guardare la partita dalla cucina o dal salotto. Proprio come una volta. Quando per esempio Antonio Giraudo era un ragazzino che, alla domenica, si faceva invitare in Via Filadelfia da un compagno di scuola figlio di un bravo ferroviere. Da lì si vedeva il Toro giocare. Lì l’ex potente dirigente della Juventus diventò granata. Sarebbe capitato a chiunque, del resto. Perché, ve lo posso assicurare, da quel terreno verde come uno smeraldo partivano vibrazioni incredibilmente positive che arrivavano in ciascuna abitazione ed entravano nell’anima insieme con il rombo simile al tuono provocato dai  tifosi sulle gradinate. Un altro tuono squarciò il cielo, a Superga, un giorno e da quel momento anche il Filadelfia, disperato, cominciò lentamente a morire. Eppure c’è chi giura ancora oggi che in certe notti di luna piena era possibile sentire i tacchetti dei mitici battere il cemento dello spogliatoio eppoi la voce di capitan Valentino che, rimboccandosi le maniche della maglia, ordinava “Adesso andiamo a vincere”.

    Ebbene, un posto così non poteva rimanere abbandonato dagli uomini perché sarebbe stato un delitto non solo sportivo. Venti anni è durata questa agonia che nessun presidente torinista e nessuna amministrazione cittadina era riuscita a interrompere. Ce l’ha fatta, finalmente, Urbano Cairo il quale dopo aver rimodellato una squadra degna di amore antico si è guadagnato un posto definitivo nella storia granata grazie al regalo più bello che avrebbe mai potuto fare ai suoi tifosi. Rammento l’Avvocato che, da autentico innamorato del calcio in senso ampio,  ogni tanto confidava: “Io credo, da buon juventino, che se il Toro non esistesse occorrerebbe inventarlo”. Già, perchè esistono cose e uomini e vicende che vanno ben oltre il rimbalzare di un pallone o lo sventolio di una bandiera. Una di queste si chiama sport che, pur non facendo rima, è bellissimo poter coniugare con la parola amore.

    Marco Bernardini

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