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Bernardini: Platini, nessuna ghigliottina
Il Platini numero uno era quello che arrivò a Torino e alla Juventus, dopo i Mondiali dell’Ottantadue, per mostrarsi come era. Diverso da tutti gli altri della razza calciatore. E non solo in campo. Per l’avvocato Gianni Agnelli era “Il fois gras pregiato da spalmare sulle tartine bianconere oppure una credit card sempre a portata di mano”. Per chi doveva lavorare sulla sua figura di campione era un osso davvero duro, sfacciatamente e provocatoriamente francese. Alla prima intervista, nello spogliatoio del Comunale, gli faccio una domanda e lui risponde in francese parigino. Mi vuole mettere alla prova. Fortunatamente, oltre all’italiano e un poco di spagnolo, il francese lo conosco bene. Non mi frega. Viene fuori una chiacchierata schietta e fuori canone. Intelligente ma anche molto astuto, le roi. Gli garba mettere in difficoltà la gente e per farlo usa l’arma dell’ironia. Chi non la capisce è fuori gioco. Come il collega che, volendo ingraziarselo, gli porta al campo tutte le mattine i giornali freschi di stampa. Alla terza volta Platini gli fa: “Croissant e capuccino niente?”. Odia i lacchè. In compenso, come tutti i grandi, si trova a suo agio con principi e con barboni. Frequenta villa Frescot dove vive l’Avvocato e aiuta concretamente don Ciotti nel recupero degli sbandati. Una volta al mese, senza il codazzo dei media e insieme con Zibi Boniek, va a far visita ai bambini malati di cancro del Regina Margherita. Fuma come un turco, specie quelle degli altri, e a Trapattoni che lo rimprovera risponde che lui lo può fare “Tocca a Bonini smettere perché lui deve correre”. Il primo Platini chiude mentalmente una notte in Belgio, a Bruxelles, anche lui vittima psicologica di una mattanza inaudita che non potrà mai dimenticare. E rifiuta le seduzioni degli inglesi che lo ricoprirebbero d’oro se soltanto accettasse di giocare per loro. Se ne va da Torino in sella ad un cavalo immacolato, così come era arrivato.
Il secondo Platini è quello che vado a trovare un paio di volte l’anno, a Parigi oppure nei suoi vigneti sopra Cassis. Troppo scomoda, per lui, la panchina da dove istruire ragazzi un po’ ignoranti e molto viziati. Come dirigente del calcio francese va meglio. E’ poco prima dei Mondiali ’98, per la cui organizzazione lui è il presidente, che nel suo ufficio di Place de l’Opera alla quinta sigaretta “battuta” mi fa: “Vedi Marco, alla nostra età ci sono due strade: quella del buen ritiro intellettuale o quella della politica”. Lui ha già deciso per la seconda. Le due strade viaggiano parallele ma non si incrociano. Ci perdiamo di vista.
Il terzo Platini è quello che mi piace meno. E’ quello che mi urla al telefono: “Ti proibisco di mettermi in bocca cose che non ti ho detto. Oggi io sono un politico, ricordatelo”. Certo avevo inventato una sua frase, non riuscendo a trovarlo al telefono. Ma si trattava di una banalità tipo “di che colore è il cavallo bianco di Napoleone”. Una sciocchezza, insomma, la cui reazione spropositata dava la misura del “nuovo” Platini. L’uomo il cui nome tra ventisei giorni campeggerà nell’elenco ufficiale dei candidati per il governo del calcio mondiale. Il nemico giurato del bieco Blatter che vorrebbe veder “le roi” ghigliottinato prima delle elezioni del prossimo anno. Non accadrà e, verosimilmente, Michel sarà il presidente della Fifa. Certo, non cavalcherà più un purosangue immacolato, ma per il mondo del pallone sarà comunque il giorno del nuovo risorgimento.
Marco Bernardini