Baresi al Salone del libro: 'Sacchi bravo e fortunato, Van Basten straordinario. Il 5-0 al Real è la partita, Pasadena...'
IL LIBRO - "Perché l'hai fatto? L'etichetta della mia vita: "Franco Baresi: Franco". Sentivo: perché non raccontare dove tutto iniziò? Com'è stato possibile fare certe prestazioni. Com'è stato possibile raggiungere tanti traguardi. Vincere tutto quello che ho vinto. Cosa c'è dietro quel giocatore. Il mio intento era soprattutto quello. Scrivo. Spero. Mi auguro di poter emozionare. La mia intenzione era quella di trasmettere messaggi. Poter essere stimolo e ispirazione ai giovani, ai meno giovani. Sono diventato ciò che sono perché ho vissuto quello che racconto. Infanzia intensa, adolescenza. All'esordio... Racconto quello che magari tutti vivono. Contro le avversità della vita, mettersi in gioco. Ci vuole grande forza. Coraggio. Determinazione. Che tante volte non pensiamo che ci voglia. I giovani oggi quanti sacrifici sono disposti a fare? Il messaggio è questo: sognare si può. La mia storia calcistica la conoscono tutti, qui ne parlo perché il Milan è stato una seconda famiglia, l'opportunità a 14 anni di poter crescere, di aspettarmi nella mia formazione. Nell'aiutarmi. Qualche difficoltà l'ho incontrata anch'io. Il Milan è un rapporto veramente forte, duraturo, insieme abbiamo raccolto e raggiunto grandi traguardi.
CITAZIONE - "Come ha capito persona e calciatore. Ci siamo scritti e mi ha dato l'opportunità di usare la sua citazione. Un onore per me. Quella frase dice un po' tutto. Quello che cercavo di essere come persona. Capire il gioco era la mia forza. Sapersi muovere prima degli altri. Poi l'intuizione verso la persona. Credo che sia importante in uno sport di gruppo capire il compagno, la situazione caratteriale di uno. Non lasciare indietro nessuno. Forse non ero pronto: avevo l'onore e onere, l'ho imparato strada facendo. L'esperienza avuta con Rivera, poi ho imparato anno dopo anno. All'inizio non potevo parlare, farmi sentire. L'esempio è stato fondamentale. Quello che potevo dare in campo, non dimenticando i compagni. Mi ha dato grande soddisfazioni. Stima e affetto della gente. Questo è stato il mio segreto".
IL RIGORE DI PASADENA - "Il filo conduttore è il rigore di Pasadena. Lo porto nell'ultimo capitolo, gli ultimi venti giorni: l'infortunio, la risalita, arrivando fino alla finale, giocando quella partita. Com'è stato possibile? La forza, il coraggio, la determinazione, leggendo uno poi la capisce. La solidarietà della mia infanzia, aver perso presto i miei genitori. Essere il capitano. Lì è arrivato il coraggio per una prestazione del genere. La base è quella. Da bambino, crescendo, ho imparato che si può raggiungere quel livello lì. Il rigore? La prima intenzione era tirarlo alla sua sinistra. Se vai sul dischetto pensi a tante cose. Prendi il pallone, speri di non sbagliare. Accadde ciò che non pensai. Calciai anche cambiando proprio decisione: il mio corpo all'indietro, la palla s'è alzata. Baggio? Un po' più rigorista di me: mi consola un pochino. Baggio fu straordinario, ci portò con i suoi gol in finale. Un peccato. Poi nello sport c'è chi vince e quello che arriva secondo, forse quel Brasile doveva vincere. Se avessi segnato? Sarebbe stato il primo, chissà poi. Il resto è comunque importante. Nel Novanta lo calciai per primo: feci gol, ma non andò bene".
SACCHI - "Dice sempre che i secondi spariscono? Quella Nazionale non ha avuto grandi soddisfazioni sul piano della considerazione. La squadra invece dimostrò di avere attributi, qualità tecniche e umane. Un gruppo molto solido. Facemmo il Mondiale in un clima difficile. Due o tre partite, quarti e ottavi e abbiamo rischiato di tornare a casa. Lì ha vinto il carattere, il gruppo. Si meritava qualche elogio in più. Tutti aspettavano Sacchi e un calcio spettacolare, ma non era semplice giocare meglio e a quei ritmi in quelle condizioni".
IL PIANTO FINALE - "Piango per svelare le mie fragilità? Fu uno sfogo liberatorio. Tanta tensione. Avevo accumulato parecchio. Non era semplice giocare la finale, non sapevo cosa potevo dare, non sapevo se il ginocchio avrebbe retto, la squadra poteva pagare. Misi in campo tutte le mie conoscenze. Alla fine, ti manca quell'ultimo passo... lì crolli, emotivamente, ti lasci andare".
SCONFITTE E VITTORIE - "Servono entrambe. Si impara dalle sconfitte, ma anche dalle vittorie. Bisogna sempre sapere che hai vinto, non devi mancare di rispetto verso l'avversario. Può esserci sconfitta, lì pensi che devi migliorare, crescere, dare di più. Esistono entrambe nello sport: non si può sempre vincere. Dare valore a tutto quello che tu fai".
ANCORA SU SACCHI - "In Italia siamo restii a cambiare, in tutto. Quando arrivò nessuno lo conosceva. Non sapevamo il suo pensiero, le idee, l'innovazione. Eravamo curiosi, non perplessi, ma volevamo capire, ascoltare, vedere cos'avesse in mente. Non ci volle molto: capimmo subito che la sua filosofia, la sua cultura, erano molto importanti. La sua priorità era l'allenamento: da lì passano certe prestazioni. Voleva che andassimo a mille all'ora e non eravamo abituati. Mai con quell'intensità, attenzione. Potevamo fare qualcosa di importante così, poi la storia l'ha dimostrato. I lanci? Mandavo in gol qualcuno, eh. Anche se lui non voleva. Diceva: lanciando, allungo la squadra. Ma ogni tanto bisogna anche andare in porta. Comunque la squadra era sempre corta, compatta. Poi ci siamo capiti. La resistenza ai cambiamenti? Siamo sempre stati in sintoia. Ripeto: ha portato tante cose eccezionali. Ci siamo portati tutto dietro e ci ha allungato la carriera. Poi racconto quanto sia stato importante giocare con giocatori straordinari in difesa, ognuno di noi migliorava l'altro. E' stato un vantaggio enorme. Sono durato tantissimo, Billy e Paolo hanno smesso a 40 anni, Mauro a 38. Ci siamo dati uno slancio".
POSIZIONE VAN BASTEN - "Marco contro Sacchi? Tra Van Basten e Sacchi non c'è stato questo gran feeling, ma entrambi sapevano l'importanza l'uno dell'altro. Marco voleva libertà mentale, Arrigo era schematico. Dovevi muoverti con palla e compagno. Van Basten era naturale. Sacchi è stato importante, Marco straordinario. Fare percentuali è difficile: ma l'allenatore ha anche una fortuna, trovare una squadra con campioni. Altrimenti non puoi vincere. Guardiola è fortissimo, ma senza squadra di fenomeni non vince. Deve essere messo tutto insieme. Bravo e fortunato a trovare un gruppo che in quel momento non aveva vinto, italiano, e tre fenomeni olandesi. Insieme era una bella combinazione".
IL 5-0 AL REAL MADRID - "Non cito tante partite, ma quelle fondamentali sì. Perché la cito? Era la semifinale di ritorno, dopo l'1-1, e ci avrebbe portato in finale dopo 20 anni. Veniva da annata straordinaria: non dovevamo sbagliarla, ma dimostrare il nostro valore, tutto ciò per cui stavamo lavorando. 5-0. Cinque marcatori diversi. Ci portò in finale. Una partita che rimarrà per sempre".
BERLUSCONI - "Figure opposte? Sì, ma Berlusconi è unico. Io racconto quando arriva. Dico: 'Poteva sembrare uno sbarco da megalomane, ma non è così'. Conoscendole, voleva dare un segnale forte all'ambiente Milan e al calcio. Le cose normali non sa farle: voleva dare impronta forte. Oltre a quel viaggio in elicottero, quando lui arrivava era diverso. Trasformò il centro. Lo abbellì. Era attento al giardino, ai campi. Voleva che capissimo questo: serviva qualcosa di straordinario, una squadra bella e divertente, che vincesse. Eravamo titubanti, poi vide lontano. Ha dimostrato di avere grande competenza. Galliani e Braida li ha portati lui e aveva tutto sotto controllo. Fautore di tutto. Il suo olandese preferito? Van Basten. Si era innamorato di tanti giocatori, si affezionava a tanti che hanno fatto molti anni con questa maglia. Sempre riconoscente e attento con tutti. Ci metteva nelle condizioni di giocare, essere sereni. Ai particolari. Sembra magari che sia inarrivabile. Ma a Milanello ci trasmetteva serenità ed entusiasmo. Ci metteva in condizione di fare le cose alla grande".
MENTAL COACH - "Berlusconi negli spogliatoi? Veniva sempre prima a salutare, poi a fine partita. Non entrava mai in questioni tattiche. Gli piaceva sempre parlare, discutere, confrontarsi. Con l'allenatore anche. Era la grande passione, ma anche competenza. Voleva ascoltare tutti, da ognuno di noi veniva qualcosa fuori. Era così bravo".
MARSIGLIA - "Ho voluto ricordarlo. Affinché chi viene dopo di me possa non sbagliare. Ci sentivamo invincibili. La tua mente non ragiona, lo fa meno, e allora pretendi. E invece devi essere proprio bravo a entrare nell'ottica. Anche gli avversari: lì magari sono stati più bravi di te. Ci siamo aggrappati alle luci. Due anni prima era andata bene con la nebbia. Poi alla fine l'abbiamo pagata, eh".
RIVERA - "Io ero giovanissimo, lui a fine carriera. Sapeva gestire ogni situazione. Coi giovani era molto bravo, cercava sempre di non mettere in difficoltà. Era sempre rispettoso. Sapeva muoversi, parlare, gestire le situazioni con la squadra. Non parlava tantissimo neanche lui, ma quando parlava diceva cose che ti toccavano e lo ascoltavi. La personalità, l'intelligenza... Ho imparato tante cose da lui. A non esaltarmi. Conoscere la propria forza. Mettersi a disposizione della squadra. Lui era Rivera e si metteva davanti, ci metteva la faccia. Poi sempre pacato. E ho imparato tantissime cose, che mi hanno aiutato nella crescita".
PALLONE D'ORO - "Definisce la statura del giocatore? Credo sia un premio importante, ambito. Soprattutto gli attaccanti sono quelli favoriti, ma è giusto così. Il gol è emozione e il calcio è emozione. E' normale che sia avvantaggiato. Non mi è mai pesato non averlo vinto. Mi sentivo appagato quando vincevo con la squadra. Quando stavo bene. Se c'era un premio per quello, non mi pesava. Non mi è mai pesato. Il prossimo Pallone d'Oro? Non è facile. Capitano le annate con Europei e Mondiali. In quel mese puoi vincerlo, e magari negli altri 11 poca roba. Con Ronaldo e Messi è stata dura per tutti. Quest'anno Jorginho è candidatao ed è bello, ha fatto grandissime cose. E' andato via dall'Italia e ha vinto col Chelsea, con la Nazionale, facendo un calcio molto bello. Passo in avanti già il fatto che sia candidato. Ma vincere non so".
CON I GIORNALISTI - "Rapporto di fiducia. Giocavo e loro scrivevano. C'è sempre stato un buon rapporto con le persone e i giocatori. Ci conosciamo davanti: ce n'era sempre uno di ogni giornale, in trasferta, alle vigilie. Sempre buoni rapporti. Mai una polemica? Quando davano i voti, si guardavano e cambiavano. I giocatori guardano le pagelle, sì. E leggono i giornali. Bisogna dare il giusto peso".
IL BRACCIO ALZATO - "Come scrivo nel libro, ho dovuto anch'io fare dei cambiamenti. A zona mi sentivo a mio agio. La mia intenzione era sempre quella di avere la squadra in mano. Al di là del reparto, volevo sempre il Milan con un passo in avanti. Un gioco sempre offensivo. Sempre propositivo. Anche l'avversario creava problemi. Ma la mia intenzione era quella di essere attento, di essere pronto a ripartire".
IL MIGLIORE DI SEMPRE? - "Avevo delle qualità. Soprattutto una dote: la mente. La questione mentale: avevo la fortuna di capire il gioco e la forza mentale di riuscire a trovare stimoli per ogni partire. Oltre alla vittoria, oltre le sconfitte. Avere continuità. Una volta Tassotti disse: 'Baresi è il giocatore più continuo di rendimento'. Sbagliavo anch'io, ma il mio segreto è stato quello".
COSA NON MI PIACE DI OGGI - "Non avevo bisogno di un procuratore e di trattare. Sappiamo però che il calcio è cambiato: i social ci hanno invaso, hanno condizionato tutto. Ogni giocatore è preoccupato dopo la partita, della propria immagine. Ma ci sono piccole cose che non devono mai mancare: l'aspetto umano, la passione, la riconoscenza verso la gente che viene a vederti. Questo rischiamo di perderlo. Gli interessi personali vanno oltre e veniamo travolti. Se uno non ha equilibrio, allora si tende a deludere. Prendiamo Messi: è stato grandissimo, per me come Maradona. Quando è andato via da Barcellona mi ha amareggiato: la soluzione, uno come lui, poteva trovarla. Ha vinto tutto. Idolo e statua pronta. Invece è stato anche lui mal consigliato...".
FAMIGLIA - "L'incontro con mia moglie? Quell'Ottantadue sembrava l'anno peggiore, e invece è stata la mia ascesa”.