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'Balotelli vincitore nel pallone': Mario lotta contro i razzisti (e se stesso)
Non si tratta certamente di un santo e lo sa bene il sociologo Mauro Valeri, il più autorevole studioso del razzismo nello sport italiano, che in "Mario Balotelli vincitore nel pallone" (ed. Fazi, pagg. 256, € 12,50) si sforza però di comprendere le radici dell'inquietudine del ragazzo, inserito dalla rivista Time tra le cento persone più influenti del pianeta.
Non gli ha giovato la sadica schizofrenia dei media, che in lui hanno visto, a giorni alterni, il salvatore della patria calcistica e il prototipo del bamboccione viziato, il simbolo di un'Italia multiculturale e il peggiore testimonial possibile della causa dell'integrazione, ma è pur vero che Balotelli ha avuto le sue "colpe" da scontare.
La prima, una sorta di peccato originale, è quella di non essere nato da genitori italiani. Una legge retrograda, combinata con l'irrimediabile ottusità della nostra burocrazia, gli ha impedito di ottenere il passaporto italiano fino al compimento dei diciotto anni, costringendolo a sentirsi straniero in quella che è, a tutti gli effetti, la sua patria. Una colpa ancora più grave, il colore della pelle, rinfacciatogli sin dalla più tenera età.
E se da bambino si lavava le mani con l'acqua bollente sperando che diventassero bianche, da adulto ha visto altri lavarsene metaforicamente le mani. Prendiamo i cori e gli ululati razzisti che lo hanno sempre bersagliato nei nostri stadi: sanzionati in maniera ridicola oppure ignorati contro ogni evidenza, spesso sono stati giustificati con pretesti stupidi ("E' lui che provoca, è un arrogante"), derubricando un serio problema di civiltà e di ordine pubblico ad una sua guerra privata con i tifosi avversari. Ma chi nega il razzismo, ha giustamente osservato Lilian Thuram, non aiuta Balotelli, ma lo lascia solo.
Valerio Rosa