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  • Atalanta, quello di Gasperini è già un capolavoro, con o senza trofeo

    Atalanta, quello di Gasperini è già un capolavoro, con o senza trofeo

    • Simone Eterno
    Il ricordo è personale, e per quanto il galateo del buon giornalista non dovrebbe mai partire dalla prima persona, almeno non così spudoratamente come sta facendo il sottoscritto, nel ripensare a tutta questa storia dal nome 'Atalanta' la mentre riaffiora proprio lì. Siamo gli albori degli anni 2000, in una prima liceo in cui un giovane professore di latino si presenta a una classe di provincia dell'hinterland milanese.

    Sono gli anni in cui la Serie A vive di quella che è ancora l'onda lunga del suo massimo splendore. La Premier League inizia a instillarsi in Asia strizzando l'occhio a quel miliardo di spettatori che contribuiranno a renderla ciò che è oggi, ma alle nostre miopi latitudini non è nemmeno percepita come una minaccia. Il suo modello spezzatino è anzi guardato con diffidenza dal conservatorismo calcistico italiano, e la pay-tv - che si affaccia alla tecnologia del digitale satellitare - è cosa per famiglie benestanti. Internet, nel 95% d'Italia, gira ancora in 56k - chi c'era, sa - e le partite si guardano al bar di paese o, per i più fortunati, a casa dell'amico 'ricco'. Per vedere i gol del campionato bisogna comunque aspettare '90° minuto' su Rai 1 alle 18:00 della domenica pomeriggio. E per vivere le partite in tempo reale c'è 'Tutto il Calcio Minuto per Minuto'; o la sua versione televisiva più sbarazzina magistralmente condotta da un giovane Fabio Fazio dal nome 'Quelli che il calcio'.

    È l'Italia - ma anche l'Europa - delle 'sette sorelle'. Alle maxi-piazze di Juventus, Inter e Milan si sono unite le ambizioni di Parma, Roma, Lazio e Fiorentina che raggiungono il culmine proprio in quegli anni. Trovare qualcuno che tifasse 'Atalanta' fuori da Bergamo e che non fosse collegato per qualche ragione alla città, era come cercare il classico ago nel pagliaio. Da qui il ricordo. Il professor Corsi, che non era bergamasco e non aveva parenti da quelle parti, nel corso di quella stagione 2000/01 si esaltò per i nerazzurri allenati da Giovanni Vavassori, che freschi della promozione dalla B ottenuta l'anno precedente conclusero incredibilmente il campionato al 7° posto. Un risultato che a Bergamo non si vedeva da più di 10 anni, quando il compianto Emiliano Mondonico in panchina e il suo guerriero Glenn Strömberg in campo, fecero sognare una città. L'exploit bergamasco di Vavassori sarebbe durato tutto sommato poco. Un'altra stagione. Poi l'Atalanta sarebbe tornata quella di sempre.

    Una società in cui, a lungo, nella sua storia, la dimensione è stata pressapoco questa: una buon club di provincia il cui obiettivo era lanciare i giovani del suo rinomato settore giovanile, rimanere in Serie A e, quando si presentava l'occasione, vincere il derby col Brescia.

    Chi è nato nella generazione di chi vi scrive queste righe, tutto questo, non lo può dimenticare. Perché a volte le rivoluzioni passano davanti agli occhi e diventano roba scontata. Come se nel 2001 fossimo nati tutti. Come se l'Atalanta formato europeo che da anni stiamo vedendo a Bergamo, fosse la normalità delle cose. Non è così. E viene dunque da sorridere di fronte a chi, in queste ore, imposta la sua narrazione più o meno su questi toni: "A Gasperini serve un titolo per completare il lavoro". 
    Ma proprio no. Ma neanche per sbaglio.


    A Gasperini non serve davvero un bel niente. Un titolo, con quel 'trofeo da alzare' da tanti visto come traguardo che diventa vera discriminante nel giudizio di una carriera - leggasi, che ne so, Fabio Capello, ancora ancorato all'aberrante narrazione del "cosa hai mai vinto x o y" - sarebbe casomai il suggellamento di un lavoro che è e resterà incredibile, straordinario, clamoroso. Scegliete voi il superlativo. Sì perché a prescindere da quel che succederà a Roma domani o a Dublino il prossimo 22 maggio, il giudizio non si sposterà di una virgola su ciò che è stato ed è tuttora il 'ciclo del Gasp'. 

    Perché in 117 anni di storia una finale europea a Bergamo non l'avevano mai vista. Così come non avevano mai visto la Champions League qualche anno prima; figuriamoci i quarti di finale giocati contro Neymar e Mbappé. Esiste insomma un'Atalanta pre Gian Piero Gasperini e non sappiamo ancora se esisterà un'Atalanta post Gian Piero Gasperini. Starà al club dimostrare se questi 8 anni di risultati straordinari sul campo - e ancor più clamorose plusvalenze fuori - saranno qualcosa di replicabile a oltranza nel tempo. Sì perché della Dea del Pupu Gomez, Josip Ilicic, Duvan Zapata, Robin Gosens non è rimasto nulla. Ma dopo un anno di assestamento, con l'ottavo posto a oggi peggior risultato della gestione Gasperini - ma comunque 5° miglior risultato della storia dell'Atalanta in A escluse le altre stagioni di Gasperini - la Dea è tornata a brillare.

    E l'ha fatto ingrassando i bilanci con una serie di cessioni di cui si potrebbe fare una lista infinita. Mancini, Caldara, Kessie, Castagne, Conti, Gagliardini, Diallo, Gosens, Kulusevski, Romero, Højlund per citare le più remunerative a bilancio. Tutta 'roba' esaltata dal Gasp o quasi. Che nel contempo, mentre da un lato perdeva un 'prodotto' che aveva contribuito a creare, dall'altro ne stava già plasmando il sostituto. Per la gioia di chi, a Bergamo, fa i conti in società. Sotto la gestione tecnica di Gasperini l'Atalanta ha registrato utili ogni singolo anno: dal bilancio 2016 a quello 2022, l'ultimo i cui dati sono ufficiali e completi. Qui dentro il club ha messo a referto alla voce 'plusvalenze' la cifra mostre di 298 milioni di euro; e alla voce 'utili', appunto, un totale complessivo di circa 175 milioni (fonte Calcio e Finanza su bilanci Atalanta Bergamasca SpA);

    È vero, nessun tifoso ha mai festeggiato 'il bilancio', nessuno porta in memoria 'la plusvalenza' tantomeno si sono mai visti caroselli per la notifica di un bonifico alla società per cui si fa il tifo. Quel trofeo sarebbe ovviamente qualcosa di speciale da ricordare per tutti gli atalantini. Ma resterebbe, appunto, solo il punto esclamativo a un'operazione di metamorfosi di cui non si ricordano precedenti simili. E non vale citare casi come il Manchester City o altri make-up fittizi dati dall'arrivo del paperone di turno. Con i 'rubinetti aperti' son buoni tutti. Anzi, a volte nemmeno quelli bastano a cambiare la storia.

    Chiaro, Gasperini poi non ha fatto tutto da solo. I Percassi hanno tirato su un club in difficoltà e il fenomeno Sartori - che già aveva fatto grande il Chievo prima e che è fresco del nuovo miracolo Bologna oggi - ha posto le fondamenta. Anche la città di Bergamo, in piccolo, ha fatto il suo, lasciando senza troppe scartoffie burocratiche e legali (che vediamo altrove) la possibilità alla proprietà di ricostruirsi il suo gioiellino su quel che era il semi fatiscente 'Atleti Azzurri d'Italia'. È stato un connubio di fattori, come spesso succede nelle storie di successo; un mix di ingredienti però che senza la presenza di una delle più brillanti menti calcistiche della Serie A degli ultimi 15 anni - Gian Piero Gasperini da Grugliasco -, ne siamo certi, non avrebbe portato a un risultato finale del genere.

    Per questa ragione - e per una piazza che anche nei momenti più bui della storia del club non ha mai fatto mancare il suo affetto - le finali dell'Atalanta non rappresentano la discriminante di un giudizio. Sono, casomai, il segno del passaggio dei tempi: la dimostrazione che reinventarsi è sì complicato, ma non impossibile. Prima di Gasperini, i migliori risultati dell'Atalanta in Serie A erano stati proprio in quel settimo posto di Vavassori nel 2001; quel sesto e settimo posto di Mondonico nel 1989 e nel 1990; il sesto posto di Ferruccio Valcareggi nel 1962; e il quinto e sesto posto di Ivo Fiorentini in epoca 'paleolitica' se si parla di calcio, ossia 1941 e 1948. Poi, in altre 5 occasioni sparse per la storia, sempre l'ottavo posto. I piazzamenti dell'Atalanta a fine di campionato dal 2016/17 in poi, ovvero gestione Gasperini, dicono: quarto, settimo, terzo, terzo, terzo, ottavo, quinto e di nuovo attuale quinto posto a due dalla fine. 

    Dicono, insomma, che da 'piccola' si può diventare 'grande'.  Certo, servono che tutte le tessere del puzzle si incastrino per il verso giusto com’è successo a Bergamo dal 2016 a oggi. Ecco, solo per questa ragione, quella coppa, cambierebbe qualcosa: un trofeo in bacheca, dopo un percorso così, sarebbe un bel ricordo da conservare nel tempo.

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