Altafini e l’Italia cotta in salsa cilena
Finì, come si dice, letteralmente in vacca e i presunti campioni del mondo si imbarcarono nottetempo su un aereo a Santiago del Cile per fare ritorno in patria cornuti e mazziati dopo la miseria di appena tre partite giocate. Da quel giorno il calcio italiano cambiò registro e il presidente della Federazione, Umberto Agnelli, dichiarò che la maglia azzurra sarebbe stata indossata esclusivamente da giocatori italiani al cento per cento. Quasi che la responsabilità di quel disastro annunciato fosse da attribuirsi ai sudamericani assortiti. Josè, che oggi vive ad Alessandria e si occupa insieme con la moglie e a un suo ex compagno Tonetto di abbigliamento, rigetta senza esitare quel teorema anti-oriundi. Usa una metafora “esagerata” di quelle che piacciono a lui inventore televisivo del “golasso” e di tante altre coloriture paracalcistiche: “Fu la strage degli innocenti, in realtà, rivisitata in chiave sportiva. E gli innocenti eravamo noi: io, Omar e tutti gli altri che ci facemmo prendere a botte, sputare in faccia e insultare dai cileni, in campo e fuori, per poi venir accusati dagli italiani di essere mercenari senza bandiera. Ecco, sotto questo profilo ho goduto come un matto quando ho visto il mio connazionale Eder segnare quel gol così bello alla Svezia. Mi sono sentito vendicato anche se con cinquantaquattro anni di ritardo”.
Impossibile dargli torto. Il massacro in salsa cilena che si consumò quel giorno di giugno nello stadio di Santiago (il medesimo usato, poi, dal Pinochet pere un’altra strage degli innocenti questa volta tragicamente non metaforica) era frutto di un “fuori di testa” collettivo che aveva sconvolto l’intera nostra spedizione. Giornalisti compresi. I due inviati de “La Nazione” e del “Resto del Carlino”, per esempio, i quali nei loro reportage non avevano trovato di meglio se non scrivere e descrivere il Cile come “Un paese di pezzenti, di malavitosi con un’economia sommersa che si regge sull’attività di puttane minorenni”. I “servizi” pubblicati in Italia vennero ripresi e rilanciati dalle agenzie di tutto il mondo con il risultato che si poteva ben immaginare. Dopo aver pareggiato con la Germania la gara d’esordio, ci toccò proprio il Cile. Non fu una partita di pallone, ma una caccia all’uomo sostenuta e pretesa dal pubblico inferocito e permessa con assoluta indifferenza e disinvoltura dall’arbitro inglese Aston. A Maschio un certo Lionel Sanchez spaccò il naso mentre Sivori dribblava, senza palla, i calci diretti alle sue caviglie anzichè al pallone e Josè Altafini ricoperto di sputi e di insulti. In compenso Ferrini veniva cacciato per fallo di reazione mentre David doveva essere ricoverato in ospedale con la testa rotta. Tutto questo dopo che due sere prima della sfida nell’hotel che ospitava gli azzurri un paio di dirigenti dal cuore tenero, per la serie l’uomo non è di legno, avevano fatto arrivare un gruppetto di donnine allegre per far divertire un poco i ragazzi. Italica coerenza!
Chicca finale. L’anno successivo una squadra italiana, la Sampdoria, ingaggiò il giocatore cileno Toro. Quello che ci aveva rifilato il secondo gol durante la battaglia di Santiago. Mica male, no?