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  • 117 anni di Lazio: il viaggio anarchico e ribelle, ma con Lotito manca emozione

    117 anni di Lazio: il viaggio anarchico e ribelle, ma con Lotito manca emozione

    • Matteo Quaglini
    Un’aquila, un allenatore, una banda di raminghi. La storia di un popolo come quella di una squadra è fatta di personaggi e di movimento, inteso come viaggio. La storia della Lazio è il racconto di queste tre anime di un’idea nata a Roma 117 anni fa e che nel lungo cammino del quotidiano si sono ritrovate tutte insieme magicamente nel 1974, l’anno dello scudetto romanzesco.

    L’anno del racconto più immaginifico quello che sintetizza tutta un’essenza, una filosofia, una fede. L’aquila è la metafora del viaggio intrapreso attraverso i misteri del volo, movimento da sempre sognato dall’uomo e legato alla libertà e alla possibilità intatta di esprimere una grande emozione, sempre. L’allenatore che li racchiude tutti è Tommaso Maestrelli, il capo sensibile, il maestro saggio che seppe costruire e far stare insieme personalità forti e naturalmente conflittuali, tutte però magicamente ed emotivamente raccolte come nelle grandi tribù indiane, attorno alla saggezza del capo che tutto vede e che soprattutto tutto sente del mondo.

    Loro i conflittuali, i ribelli, i giocatori del '74 erano i raminghi della Lazio. Si perché gli eroi di generazioni di tifosi erano viaggiatori nei luoghi e nelle città. Allora come oggi hanno sempre teso al movimento, all’andare e al tornare di Gabriel Garcia Marquez, all’emozione dell’attimo e non a quella del tempo continuo. Tutti lo sono stati con i loro tratti.

    I ragazzi del -9 da Camolese all’anarchico Fiorini, artiglio dell’aquila in un Lazio-Vicenza da battaglia epica medievale. Da Terraneo a Fascetti che ha allenato con il suo senso laziale anche nelle storiche e narrative terre di Puglia. Da Nedved ramingo dell’est scoperto da Zeman nei pomeriggi grigi e affascinanti degli europei inglesi del 96, a Di Canio viaggiatore controverso e contestato capace di partire e tornare nel segno del derby e di gol icona di battaglie vinte e perdute così come di passioni di Lazio vissute e tenute nel cuore per poi andare via. Non è il tratto per ciascuno di loro dell’abbandono ma quello complesso del viaggio.

    Tutti ed altri come Simeone, Sensini, Salas e il grande cerimoniere di calcio tecnico Juan Sebastian Veron argentini e guerrieri per natura portati a guardare lontano verso il mare, espressioni artistiche e non retoriche dei raminghi del 1974.

    L’eleganza di Wilson, la fantasia di Re Cecconi, la geometrica visione del tempo e quindi della vita di Frustalupi. La leggerezza, l’armonia, il dribbling a scacciare le cose brutte e a tracciare traiettorie magiche e per questo romantiche di Vincenzo D’Amico, tutti tratti del viaggio, del loro racconto personale del luogo in cui si sta e in cui per un attimo si vive.

    Tutti i grandi laziali del calcio sono stati così e per questo la ricerca di bandiere nel senso storico del termine non li racconta appieno. I raminghi alla Bruno Giordano trasteverino, laziale e napoletano ma anche ascolano e bolognese,  quelli alla Nesta figli del settore giovanile, i Nanni, i Garlaschelli erano e sono state bandiere ma dentro il viaggio non dentro la continuità.

    Le grandi passioni, le forti emozioni non hanno tempo è vero, ma queste sono due facce della stessa medaglia l’essere anime di un luogo, di una squadra giocando sul tempo. Lungo per icone del romanismo, dell’interismo, del milanismo e dello juventinismo. Intenso, nell’attimo, duraturo a vita per i raminghi della memorabilia laziale.

    Un grande ramingo è stato Chinaglia. Capitano, leader carismatico, bomber, presidente appassionato ma sfortunato e infine portatore attraverso il grande sentimento dell’ingenuità, anticamera dell’amore, di un tentativo di rinascita. Un’ultima rivolta contro il signore di Cuzco, il Pizzarro delle terre sudamericane, l’algido Lotito.

    Quel viaggio a Long John anglosassone di nascita non riuscì ma dall’America dove viveva e per la quale nel 1976 aveva lasciato la Lazio per poi tornare da presidente, il Francis Drake del calcio laziale pensava sempre alla sua Lazio. E’ questa l’essenza di presidenti, giocatori e allenatori: il viaggio e il ritorno a casa.

    Anche il papà dei laziali Lenzini, presidente romantico era così pur essendo stato sempre vicino ai suoi ragazzi. E’ stato così Maestrelli che pur trovando nel suo magico cammino di vita una oscurità grande di fronte, tornò per salvare la Lazio dalla serie b solo due anni dopo lo scudetto epico. E sono stati così anche Fulvio Bernardini, Attilio Ferraris IV, Maestrelli, Manfredonia, Selmosson, icone del romanismo con soprattutto i primi tre grandi capitani a testaccio e negli anni cinquanta, capaci però di vestire la bandiera laziale e di portare la loro storia, le loro idee in una iconografia che fa incontrare idealmente, in un concetto eretico ma suggestivo i fratelli di Roma, tanto laziali quanto romanisti.

    I 117 anni di storia che la Lazio oggi festeggia sono stati l’universo del viaggio. Un viaggio che anche nel campo ha avuto un sogno chiamato Europa. Dalla metà anni ‘70 al 1993 era quello di una qualificazione europea che la gente laziale sognava e che Cragnotti le seppe regalere con un’altra idea raminga: acquistare grandi figure che mantenessero la promessa del viaggio e del volo. Gascoigne, Riedle, gli argentini dello scudetto del 2000, Mancini, Eriksson questa promessa l’hanno mantenuta.

    Il viaggio anarchico e ribelle della Lazio che iniziò il 9 gennaio 1900 in Piazza Libertà a Roma si è in 117 anni tratteggiato sull’emozione, quel sentimento che oggi la storiografia laziale soffre nel vedere represso da Lotito e che invece,  un’aquila, un allenatore e una banda di raminghi hanno raccontato, chiamandola, lazialità.
     
    Twitter: @MQuaglini

     

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