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Vieri: 'L'Inter, Moratti, i pedinamenti e il passaggio al Milan, dico tutto'
RITIRO - “Il calciatore smette presto, tra i 38 e i 40 anni, quindi poi devi trovare qualcosa da fare. Io sono stato un anno e mezzo a Formentera quando ho smesso, poi sono andato a Miami per trovare un lavoro in America. Lì ho avuto una collaborazione di 5 anni con beIN SPORTS e ci ho vissuto per 5 anni e mezzo, tra footvolley e tennis. Poi, insieme a Costanza, abbiamo deciso di tornare in Italia. Io mi annoio molto facilmente, devo sempre trovare qualcosa che mi diverte. Mi piace essere sempre attivo. Il ritiro? Ero stufo di tutto e di tutti, ero stanco mentalmente. Ricordo di essere andato in Svizzera con l’Atalanta a fare un amichevole, a fine primo tempo ho comunicato a Del Neri che me ne sarei andato e così ho fatto. Stavo ancora bene, ma non avevo motivazioni, avevo grande stanchezza mentale. Dovevo andare a giocare al Boavista da un mio amico, ma mi sono allenato un mese e poi ho deciso definitivamente di non continuare con il calcio: da lì è finito tutto. Rimpianto? Tornassi indietro giocherei ancora, ma lo sto dicendo ora: in quel momento, se ho smesso, è perché sentivo di smettere. Va bene così””
CALCIATORE - “Tornassi indietro giocherei fino a cinquant’anni, se fai il calciatore ami questo sport. Non c’è un mio ex compagno che non tornerebbe indietro a rifare tutto. Quando fai un lavoro che ti piace, non ti annoi mai. Quando sei fortunato a fare il lavoro dei sogni è ancora più bello. Io ero in Australia, avevo due sogni: giocare in Serie A e in Nazionale. Sono partito da solo, quando parlo con i bambini a scuola dico sempre che chi ha un sogno lo deve inseguire. In Australia giocavo terzino sinistro alla Roberto Carlos, poi a 13 anni ho chiesto di essere messo in avanti e da lì sono rimasto attaccante. Una volta arrivato in Italia ho fatto diversi provini. All’inizio mi dicevano che ero grezzo, non mi voleva nessuno. Così ho iniziato ad allenarmi con il Prato senza giocare partite, finché il presidente, che era il nonno di Alessandro Diamanti, ha deciso di farmi giocare con la squadra”
TORINO - “Un personaggio da citare è sicuramente Emiliano Mondonico. Era innamorato di me come calciatore. Io in Primavera segnavo sempre, Mondonico ha iniziato a portarmi in prima squadra ma non mi faceva giocare. Dopo qualche settimana, gli ho detto che avrei preferito continuare in Primavera. Lui mi ha chiesto: “tu sei più forte dei miei attaccanti?” e io risposi di sì. Quella stagione mi ha rimandato in Primavera, l’anno dopo mi ha fatto esordire da titolare. Io avevo il fuoco dentro, volevo giocare sempre, stare in panchina era una sofferenza. Gli altri attaccanti erano più forti di me, ma io avevo 17 anni e volevo giocare. Mi ricordo che il Torino arrivò terzo in campionato e poi fece la Coppa Uefa. Io ero in panchina accanto a lui, e ogni tanto gli dicevo sottovoce di mettermi. Poi l’ho visto prendere in mano la sedia e pensavo la volesse tirare a me. Ci siamo ritrovati anche all’Atalanta, mi ha chiamato lui. Una volta, contro il Parma, dopo che ho segnato il gol dell’1-1 all’ultimo minuto mi ha preso in disparte e mi ha detto: “mettitelo in testa, tu devi correre 90 minuti, perché il lavoro ripaga sempre”. Ero un bambino, lui mi ha portato in Serie A e mi ha richiamato all’Atalanta. Era un grande mister, lo sentivo anche dopo la fine della mia carriera, è quello che ha creduto più di tutti in me”
JUVE - "La Juventus mi ha introdotto nel grande calcio. Grandi allenatori, grandi dirigenti, una squadra fenomenale piena di talento. Con loro mi sono fatto tantissime risate, c’era un grande gruppo. Quell’anno siamo arrivati io, Amoruso, Iuliano, Montero, Bokšić e Falcioni. Noi 4 eravamo sempre insieme, dalla mattina alla sera. Ricordo un particolare: l’allenamento era alle 14.30, in ritardo si pagava una multa. Un giorno ho deciso di presentarmi al campo in anticipo, alle 14. Quando sono arrivato, ho visto che tutti erano in palestra ad allenarsi da ore. Avere compagni così ti fa capire che hai tutto per diventare quello che vuoi, dipende sempre da te. Con Lippi ho avuto una discussione, ma è stato solo un battibecco, non è successo niente”
SPAGNA - “Ho spinto io per essere ceduto, perché loro mi volevano in tutti i modi. È stata un’esperienza perfetta, da 10. In Spagna c’è il calcio più divertente d’Europa. Abitavo a Madrid, gli spagnoli sono persone spettacolari, avevo vinto la classifica cannonieri. Perché sono andato via? Non lo so. In Spagna si gioca per l’attacco, per lo spettacolo. È un calcio bello da giocare, ci si diverte. È stato un errore andare via”
LAZIO - “Avevamo una supersquadra. Non so come abbiamo fatto a perdere lo scudetto. Però abbiamo vinto la Coppa delle Coppe a Birmingham. È stato un anno incredibile nella città più bella del mondo, Roma. Avevamo una squadra fortissima, il mio idolo era Mancini. Era un grande gruppo. Racconto un aneddoto su Sven Eriksson: lui era sempre pacato, un giorno all’intervallo tornò nello spogliatoio arrabbiato e ci gridò: “cavoli ragazzi!”. Ci siamo messi tutti a ridere, perché era sempre di una pacatezza incredibile”
INTER - “Sono andato all’Inter perché volevo giocare con Ronaldo. Mi ha chiamato Narciso Pezzotti, il secondo di Lippi, ho dato subito l’ok. Andavo a giocare in uno stadio come San Siro, una meraviglia, il mio preferito in assoluto. Ronaldo è stato il giocatore più forte, a quei tempi era incredibile e io ero curioso di conoscerlo. Mi ricordo quando l’ho visto la prima volta: mi sono avvicinato e io gli ho detto di essere all’Inter perché volevo giocare con lui. Una cosa che abbiamo fatto insieme fuori dal campo? Diciamo che siamo due mangiatori, lui è proprio simpatico. Quando andavamo in giro per i ristoranti di Milano, la gente si alzava in piedi per applaudirci. Mi ricordo la prima partita di campionato, giocavamo alle 15.00 un Inter-Verona. Quando ho visto 60 mila persone ho pensato che avrei dovuto fare gol al primo pallone toccato. Il riscaldamento, con tutte quelle persone a cantare, è stato da pelle d’oca. Uno stadio così dà una carica che non si può capire. Un club meraviglioso, c’era tutto per vincere”
MORATTI - "Il pedinamento? Uno si arrabbia lì per lì, ma è stato il mio presidente per sei anni e mi ha voluto bene. Mi sono arrabbiato, più che altro c’era delusione. Però quella è stata una cosa extra, non la conto. Nei sei anni insieme non posso dire niente. Lui amava l’Inter, quando perdevamo una partita amichevole si disperava. Questo fa capire quanto la famiglia Moratti ami l’Inter. Non posso dirgli niente, non siamo stati fortunati per una serie di partite andate male. C’era forse troppa voglia di vincere da parte di tutti. Se non ci fossimo fatti male io e Ronaldo avremmo vinto, perché eravamo una super squadra, è mancata un po' di fortuna. Il 5 maggio? Perdiamo l’ultima partita, mi chiama il Presidente durante la notte e io gli dico subito: “non vendermi Ronaldo”, ma sapevo che mi stava chiamando per quello. Alla fine è stato venduto, eravamo tutti distrutti. Il Presidente non voleva vendere Ronaldo, Ronaldo non voleva andare via ma chiedeva delle cose. La sua cessione ci ha lasciato un vuoto, era il più forte del mondo. Io ho tifato tutte le squadre in cui ho giocato, ma l’Inter è la squadra che mi ha dato di più. Io non sarei mai andato via, sono stati sei anni difficili e sofferti, ma proprio per questo sono attaccato all’Inter. La gente aspettava me o Ronaldo per vincere uno scudetto, volevamo vincere tutti. È mancato sempre poco, ho lasciato tutto me stesso lì in quei sei anni di Inter. Ho giocato partite che non avrei dovuto giocare, non mi reggevo in piedi. Potevamo andare in finale di Champions, potevamo vincerla. Ho sofferto di non aver vinto. Avevamo una squadra piena di giocatori incredibili”
MILAN - “Ero libero perché avevo rescisso. Volevo tornare all’Atletico Madrid, ma non avevano bisogno di attaccanti. Ero sul mercato, Galliani mi ha chiamato e sono andato. Era la rivale, sapevo che avrebbe dato fastidio, ma a quel punto sono andato là perché volevo rimanere in una grande squadra. Ho giocato poco, non riuscivo a far gol. Non giocavo spesso, ma sono stato benissimo. Sei mesi sono passati velocissimi, il titolare era Inzaghi ma c’era il mondiale e io volevo giocare. Quindi sono andato a Monaco, che è stata una bella parentesi. Giocavo e stavo bene, poi mi sono fatto male al ginocchio e non sono riuscito ad andare al mondiale”
2006 - “Io sono un malato della Nazionale, l’ho sempre tifata. Volevo essere lì, ma ero ovviamente felice per loro. Ero distrutto, sapevo che con Lippi in Nazionale sarebbe cambiato tutto. La squadra era forte, lui era l’allenatore giusto. Ho sofferto per tanti anni, ma è normale. Lui mi ha aspettato fino all’ultimo, ma non ce l’ho fatta. Lippi è stato l’allenatore che mi ha fatto fare il salto di qualità. Ha vinto tutto, cosa gli si può dire? Niente se non bravo”
SAMP - “C’era la possibilità ma non ce la facevo più fisicamente, ho mollato. Non ero andato al mondiale e avevo un ginocchio a pezzi. Io volevo andare alla Sampdoria perché ci aveva giocato mio padre, Vialli e Mancini erano i miei idoli”