Un Mondiale non vale la vita di un uomo
Dietro lo schermo della tolleranza e della presunta eguaglianza con il quale il mondo contemporaneo si ripara, continuano purtroppo ad esistere fenomeni di oppressione individuale e anche collettiva più o meno mascherati e difficilmente estirpabili. Basti pensare alle migliaia di ragazzini del Sud Est asiatico costretti a lavorare dodici ore al giorno con paghe da fame per soddisfare le esigenze industriali delle holding occidentali. Idem per alcune zone depresse della Cina dove la dignità umana è meno importate di un piatto di riso. Senza parlare, poi, di paesi come Thailandia o Filippine dove la radicalizzazione del turismo sessuale e minorile provoca danni irreversibili in quelle che saranno gli uomini e le donne di domani. Infine proprio le donne. Quelle che, in caso di consapevole disobbedienza, l’oltranzismo islamico e quello panteista africano punisce con la lapidazione o con l’infibulazione. Però “ufficialmente” la schiavitù è stata abolita.
Salvo ritrovarla squallidamente e tragicamente sana, vegeta e ben attiva nel Qatar. La piccola penisola affacciata sul Golfo Persico e soffocata dal deserto alla quale la Fifa, nel 2010 sotto la presidenza di Blatter e con l’assenso di Platini, ha segnato il compito di organizzare e di organizzarsi per i Mondiali di calcio del 2020. Difficile conoscere l’entità della contropartita che il giovane emiro Tanim della dinastia Al Tani ha garantito sotto forma di petrolio o di gas naturali. Un “pizzo” che immagino sia già stato pagato, seppur in misura assai minore, a coloro che si sono industriati per portare nella capitale Doha il motomondiale, il Torneo Internazionale di tennis e persino la non dimenticata finale di Supercoppa tra Juventus e Napoli. Apparentemente trattasi di pura e semplice cooperazione commerciale dalla quale ciascuno trae il proprio tornaconto. Anche se è noto a tutti che dal Qatar come dalla vicina Arabia Saudita si deve registrare il maggio flusso verso l’Occidente di Fratelli Musulmani aderenti alla Jhad islamica. Ma non è neppure questo il punto.
In un documento ufficiale a dir poco sconcertante inviato ieri al nuovo presidente della Fifa, l’italo-svzzero Infantino, l’organizzazione umanitaria Amnesty International denuncia che proprio nel nome dei Mondiali di pallone nella capitale dell’emirato si stanno consumando autentici delitti oltre alla quotidiana violazione dei più elementari diritti umani. Nel rapporto lungo più di cinquanta pagine si può leggere che “centinaia di lavoratori, perlopiù stranieri, i quali hanno lavorato per la costruzione del mega stadio “Khalifa” di Doha e che stanno lavorando per allestire un numero incredibile di sovrastrutture vivono la condizione di autentici e nuovi schiavi: dormitori squallidi allestiti nel deserto (50 gradi di giorno, termometro sotto lo zero di notte) infestati da insetti e topi, paga sotto la soglia della sussistenza, tasse di soggiorno inaccettabili, pasti da pura sussistenza, nessuna garanzia sanitaria, passaporti confiscati immediatamente dopo l’ingaggio nel cantiere. Una macchia indelebile sulla coscienza del calcio mondiale. Nonostante cinque anni di promesse la Fifa ha fallito miseramente e non ha saputo evitare che la Coppa del Mondo venga costruita sulle violazioni dei diritti umani e sulla stessa vita di questi lavoratori”.
Un esercito di disperati sovrapponibile a quelli che gli antichi faraoni d’Egitto impiegavamo per la costruzione delle loro tombe. Ci mancherebbe soltanto che il simbolo di quel Mondiale, se davvero non si riuscisse a strapparlo dalle mani dell’emiro schiavista, fosse una piramide. Ma non era stato Michel Platini, forse, a coniare per l’Uefa lo slogan “Respect”? Già ma probabilmente, allora, suo figlio non era ancora andato a lavorare in Qatar.