Micaletto, un altro italiano per la Mls: ‘A Columbus da campione, ora voglio affrontare Insigne e Bernardeschi’
CAMBIAMENTI - Il primo premio a una rincorsa partita dall’Italia. Per l’esattezza, da Genzano di Roma, dove Marco inizia a prestare fantasia a quello sport che tanto lo affascina in tv: "Nel 2001, ho visto la Roma di Totti vincere lo scudetto e far esplodere una città. Ancora oggi, il capitano è il mio idolo. Un’entità metafisica, che a quei tempi mi fece dire: ‘Voglio diventare come lui’. Papà mi portò a giocare. Iniziai all’Albalonga, a due passi da casa, e da quel momento non mi sono più fermato". Nonostante i cambiamenti: "Lavora in aeronautica, a 9 anni io e la mia famiglia ci trasferimmo all’estero". A Reading, nel Berkshire, sud dell’Inghilterra. "Ricevette una proposta dal Centro Meteorologico Europeo. Impossibile rifiutare, ma rimpiango l’aver vissuto troppo poco nella Capitale".
"L’ITALIANO CI SA FARE" - Il filo conduttore resta un pallone bianco e nero tenuto sempre sottobraccio: "Giocai in qualche squadra locale, in seguito mi vide il Southampton. ‘Quell’italiano è bravo’, dissero. E feci con loro un paio di stagioni". Poi, a 13 anni, ecco il Brentford: "Ora lo conosciamo come un buon club di Premier League, allora era una squadra in difficoltà, che oscillava tra terza e quarta serie". Ma che regalò i primi contatti con il professionismo: "Si faceva allenamento tutti i giorni, i miei genitori erano costretti a fare due ore di macchina per accompagnarmi al centro sportivo. Bello sì, ma troppa serietà". Un eccesso di pressione per un ragazzo che nel calcio, in quel momento, vedeva solo spensieratezza: "Volevo fare il giocatore, vero. Ma quando, alla fine della trafila nelle giovanili, il club mi liberò senza offrirmi un contratto, tirai un sospiro di sollievo. Ero contento di quella libertà e iniziai a fare provini su e giù per l’Inghilterra". In qualche caso andò anche bene. "Con il Nottingham Forest, l’assistente del mister voleva prendermi. Ma l’allenatore era meno convinto. Me lo dissero con chiarezza e decisi di rifiutare, non sono uno che fa numero".
AMERICAN CALL - Poco tempo dopo, la chiamata: "Jonny Denton, un mio caro amico, vinse una borsa di studio per il college e si spostò negli States dopo le scuole in Inghilterra. ‘Ti va di venire a giocare in America?’. E io: ‘Non ho niente da fare, perché no…’. Così presero anche me allo Young Harris College, in Georgia. Mi buttai all’avventura". Nella Division 2, campionato regionale tra squadre di college. "Tempo un paio di settimane e cambiai vita". Dopo aver convinto (più o meno) tutti anche in famiglia: "Papà mi dava consigli, era entusiasta come me. Con mamma, è stato più difficile (ride, ndr). All’inizio fu uno shock. Mi mancava casa e il modo di intendere il calcio è diverso dall’Europa". Per la prima questione, fa la spia il numero sulle spalle: "Il 22. È il giorno del compleanno di mia madre, così anche loro scendono in campo con me". Per la seconda, pochi giri di parole: "Qui l’aspetto fisico è la prima cosa e l’intensità conta più di tecnica e tattica. Il lavoro in palestra non va trascurato".
SALTI - Dopo tre anni e una laurea, il primo salto in Division 1, con l’Università di Akron, Ohio, e il trasferimento al Tormenta, nella città di Statesboro, sempre in Georgia: "Una società che amo, con cui per tre stagioni ho giocato da professionista. Ma, vuoi o non vuoi, perdevamo sempre (ride, ndr)". E dopo 85 presenze e 26 gol, l’ultimo treno: "Un anno fa, la chiamata del mio procuratore: ‘Ti vogliono a Columbus, nel team riserve’. Nelle seconde squadre, la maggior parte dei giocatori è però molto giovane, non a caso qui sono il più vecchio. All’inizio ho detto: ‘No grazie, non ho voglia di fare il baby sitter’. Poi, ripensandoci, ho capito che sarebbe potuta diventare una grande chance, l’ultima per agguantare la Mls. E giocare contro gente come Insigne e Bernardeschi, non sarebbe mica male".
"SE PO’ FA" - Quindi, sfida accettata. "Appena arrivato, ho fatto una lunga chiacchierata con mister Courtois. È una grande persona, oggi per lui farei di tutto". Mesi fa, un po’ meno. "Mi ha spiegato il suo modo di intendere il calcio e io: ‘Tutto ok, ma non farmi capitano’. Il giorno dopo mi chiama: ‘La fascia è tua’. E giù a ridere". Per un flash che fa da incipit alla cavalcata: "La scelta mi ha responsabilizzato. Ora sono costretto a dare sempre il cento per cento, a essere da esempio". Momenti chiave? "Abbiamo perso la prima partita, capendo però che proprio male non era andata. Insomma, ho detto ai ragazzi che ‘se poteva fa’. E dalla gara successiva abbiamo messo insieme una bella serie di vittorie". Con spirito costruttivo e voglia di lottare: "Nelle due amichevoli giocate contro la prima squadra, abbiamo pareggiato e vinto. In scia a quel successo, a maggio abbiamo perso in casa contro il Rochester, nella regular season. Un 4-0 senza storia, che il giorno dopo ha portato la dirigenza a convocarmi per parlarne. Ho promesso loro che non sarebbe successo più". Tutto vero. "Cinque mesi e arriviamo in semifinale dei playoff contro Toronto. Siamo avanti, pareggiano allo scadere e ai supplementari vanno in vantaggio, 3-2. Sembra finita, ma negli ultimi cinque minuti ne facciamo due. Vinciamo 4-3 e strappiamo la finale".
OCCASIONI - Un trionfo storico. "Primeggiare non è mai facile, soprattutto in tornei così spezzettati. È andata bene, ma non mi fermo. L’obiettivo è ora avere un contratto in prima squadra e giocare in Mls, già che ci siamo (ride, ndr)". Dopo 10 gol e 3 assist in 26 presenze, il confronto darà il responso: "A fine anno ci sarà un meeting con la dirigenza, ci spiegheranno le loro idee per la prossima stagione. Dovesse andar male, continuerò qui e ci riproverò. Non è mai troppo tardi". Pure perché una rivincita, in parte, Marco l’ha già avuta. Insieme a un bell’attestato di stima: "Più volte, la società ha detto che quando hanno deciso di credere in me non si aspettavano risultati del genere. Ora, puntare in alto è il minimo". L’American dream vuole diventare realtà.