Turrini a CM, il commovente ricordo di Senna: 'Un uomo libero, non un santo, anche fragile. Pur di vincere avrebbe...'
“Eh, sai, ci sono ferite che non si rimarginano mai. Tu ti riferisci ovviamente alla tragedia di Imola, la morte di Ayrton Senna...”
È passato più di un quarto di secolo, eppure...
“Eppure chi c’era sa dirti dove era quando apprese la notizia, cosa stava facendo. Fu così per la nostra generazione più colpita da questo maledetto virus a proposito dell’omicidio Kennedy, nel 1963. O ancora per il rapimento di Aldo Moro o per le stragi che annientarono Falcone e Borsellino con gli uomini e le donne della scorta. E dopo, per l’11 settembre”.
Ma qui, con l’1 maggio del 1994, parliamo di un uomo solo, di un pilota.
“Hai ragione ma andiamo sul terreno della emozione pura, generata dal carisma incredibile del personaggio. Ayrton era unico e la gente, anche quella non attratta dalla Formula Uno, questa unicità la percepiva”.
Tu eri amico suo.
“Sì, lo avevo conosciuto tramite un fotografo bolognese, Angelo Orsi, che aveva con lui un legame speciale, dai tempi del kart. Tieni presente che allora lo sport business non era ancora blindato, dominato da agenti e procuratori, dalla ossessione dei diritti di immagine e tutte quelle menate lì. Allora i campioni e anche i Campionissimi non erano isolati, prigionieri di una bolla. Prova oggi a fermare Cristiano Ronaldo o Lukaku o Ibra per una chiacchierata in confidenza! Rischi di essere arrestato, se non ti sparano...”
Invece Senna...
“Senna era un uomo libero. Non era un santo come lo hanno descritto dopo la morte, non era perfetto. Pur di vincere una corsa avrebbe asfaltato sua madre. Era un essere umano, anche nelle fragilità, nelle debolezze. L’ultimo Mito. Oggi tanti fuoriclasse sono invece dei Mitomani, perché hanno attorno la classica corte dei miracoli. Io mi rendo conto che faccio la figura del trombone nostalgico, ma è tutto vero”.
Si racconta che non amasse il calcio.
“Ayrton era un brasiliano atipico. Non impazziva per il pallone, ma condivideva la passione del suo popolo per la Selecao. Due episodi lo dimostrano”.
Sentiamo.
“A primavera del 1994, quando mancava poco alla tragedia, a Parigi lo chiamarono a dare il calcio d’inizio della amichevole pre mondiale fra Francia e Brasile. Lui si diverti’ molto, andò anche negli spogliatoi a salutare Dunga, Aldair e gli altri giocatori che poi a luglio avrebbero conquistato il quarto titolo mondiale battendo ai rigori in finale l’Italia di Baggio e di Sacchi. Anche lui, Senna, inseguiva il quarto mondiale. Disse ai verdeoro: ragazzi, mi raccomando, facciamo poker tutto insieme”.
E il secondo episodio?
“Si lega a quanto ho appena raccontato. Finale di Pasadena, luglio 1994. Il Brasile ha appena vinto e noi italiani giustamente eravamo molto depressi. Ma ad un certo punto il giovanissimo Ronaldo, quello dell’Inter e che era ancora minorenne e stava in panchina, tirò fuori un enorme striscione, con il quale la Selecao fece il giro del campo. Sullo stendardo c’era scritto in portoghese: Ayrton, acceleriamo insieme, il quarto titolo mondiale è nostro. Io non ero a Pasadena, stavo in redazione, dovevo scrivere l’editoriale per la prima pagina del Resto del Carlino. Ho visto la scena in tv e mi è venuto il magone”.
Sei riuscito a finirlo, quell’articolo?
“Sì, anche se a fatica. Mi tornava in mente l’ultima volta che ci eravamo visti”.
A Imola.
“A Imola, il 30 aprile del 1994. Era appena morto in pista Roland Ratzenberger, il milite ignoto della Formula Uno, un austriaco sconosciuto. Incrociai Senna dietro i box. Era stravolto. Gli feci cenno che volevo parlargli, ma non volle. Stava troppo male. E io ho sempre avuto il rimpianto di non avere insistito, anche se naturalmente non sarebbe cambiato nulla”.
Perché non c’è mai più stato uno come lui? “Io parlo per la mia generazione, per chi c’era. Chi ha la fortuna di essere giovane ha il diritto di riconoscersi in altri eroi, in altri idoli, da Hamilton a Leclerc senza dimenticare la grandezza di Schumi, ci mancherebbe. Ma vedi, io ero coetaneo di Ayrton, appartenevamo alla stessa generazione, alle stesse atmosfere, alla stessa cultura. Poi certo lui era un Campionissimo nel suo mestiere, ma non gli invidiavo il talento, non gli invidiavo la gloria, non gli invidiavo i soldi, non gli invidiavo le bellissime donne che lo circondavano. Quella, era tutta schiuma”.
E cos’era la birra? “Io a Senna invidiavo Dio. Il suo sentimento religioso, la sua certezza di cristiano. Se aveva ragione, tutto ha avuto un senso. E spero ce lo abbia avuto, un senso”.
di Daniela Bertoni