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Tra top e flop, tra Borghi e Crespo: Milan-Argentina, storie complicate
Il 1960 è l’anno dell’arrivo di Julio Carlos Santiago Vernazza, detto «Ghito». Attaccante funambolico, proveniente dal Palermo, dove aveva segnato una cinquantina di gol in tre stagioni (idolo rosanero) e prima ancora, scuola River. Aveva le credenziali, lampi di classe e buona tenuta fisica, ma arrivò a Milano al tramonto di una luminosissima carriera, a 32 anni. Fece la sua parte: 15 reti, muy bien, ma rimase in rossonero un solo anno prima di andare a Vicenza. Chi l’ha visto giocare ricorda il suo vezzo: stoppava il pallone con la coscia, poi calciava al volo, senza che il pallone toccasse terra.
Di Nestor Combin - «La Foudre», ovvero «La Folgore» per la potenza del suo tiro - tutti ricordano la faccia insanguinata nella partita di ritorno - anzi nella battaglia di ritorno - contro gli argentini dell’Estudiantes, anno di grazia 1969, il Milan portò a casa la Coppa Intercontinentale. Era un toro, Combin, argentino di Las Rosas naturalizzato francese, terra in cui aveva mosso i primi passi - nel Lione - come calciatore. Un toro da combattimento che partiva a testa bassa, soffiando rabbia e cavalcava verso la porta avversaria: 20 gol al Milan per questo talento selvaggio che in Italia giocò anche con Juventus, Varese e Torino.
Detto che anche Angelillo - dopo i fasti all’Inter - giocò poche partite in due annate diverse nel Milan (ma riuscì a timbrare lo scudetto del 1967/68), in tempi più recenti hanno vestito il rossonero anche Crespo - tra i più eleganti e letali centravanti degli ultimi trent’anni - Ocampos e Maxi Lopez (entrambi dimenticabili), vale la pena raccontare la storia di Claudio Borghi, centravanti-flop (ma solo al Milan) nella metà degli anni ’80. E dunque: la sera dell’8 dicembre del 1985 Silvio Berlusconi accese la televisione, si sistemò in poltrona e due ore dopo era un uomo innamorato.
Era successo che in tivù davano la finale della Coppa Intercontinentale: Juventus-Argentinos Juniors in mondovisione. Un argentino con la faccia da indio per un’ora giocò come se Dio decidesse di giocare a calcio e di farlo per quell’ora lì, in diretta da un posto assurdo, un posto che col calcio non c’entrava niente: Tokyo, appunto. Si chiamava Claudio Daniel Borghi, aveva 22 anni. Berlusconi ne rimase stregato, mandò il dirigente Braida in Argentina per aprire la trattativa, Braida tornò e riferì: presidente, non ne vale la pena. Ma Berlusconi aveva già deciso, al cuor non si comanda. L’anno dopo comprò Borghi per cinque miliardi più spiccioli e lo parcheggiò al Como. Al Milan c’erano già Gullit e van Basten e più di due stranieri non si potevano schierare. A Como, l’indio, che era nato povero ma non stupido, e che aveva passato l’infanzia a costruire gabbie per gli uccelli e a imbottigliare acqua minerale, vide più panchine che campo sia con Aldo Agroppi che con Tarcisio Burgnich. Quando scattò la regola dei tre stranieri, Sacchi pretese Rijkaard. Niente da fare per Borghi, nemmeno stavolta, campione incompreso, forse. Da calciatore ha avuto una carriera dignitosa, da quando ha smesso - una quindicina d’anni fa - è un apprezzato allenatore.