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Totti non è una bandiera, è una divinità
“Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi” diceva Brecht . Beati quei tifosi (e quella società di calcio) che non hanno bisogno di eroi, bensì “soltanto” di giocatori: forti, generosi, talentuosi, ma, alla fine, calciatori. Non esseri immortali, piuttosto uomini di questo mondo, con le loro virtù e i propri limiti. I cosiddetti giocatori-bandiera rischiano spesso di trascendere il proprio limite umano: sono ritenuti invincibili, incriticabili, assoluti. Capaci, in una parola, di assumere connotati divini e di riassumere, metafisicamente, l’essenza della squadra di cui indossano la maglia. Talvolta dimostrandosi più importanti della squadra stessa.
Non tutti i giocatori-bandiera sono uguali, non tutti hanno lasciato il calcio allo stesso modo, non tutti sono stati salutati allo stesso modo. Quando Rivera (alto quoziente intellettivo in campo e fuori) provò a rientrare nel Milan da presidente, supportato da una cordata d’imprenditori, non ci riuscì, non bastò il suo carisma. A Maldini fu concesso un giro di campo e l’oblio. Zanetti, all’Inter, uscì dal campo con semplicità, senza fanfare, da dirigente, poi, ha rappresentato la spina dorsale societaria per continuità, abnegazione, capacità di ricucire e mantenere i rapporti con i giocatori. La Juve ha sempre scelto la chiarezza, talvolta per qualcuno, ai limiti della brutalità. A Del Piero fu chiaramente negato il rinnovo, a Buffon è stato dato di scegliere se entrare in società o continuare altrove. Antognoni restò ai margini, per rientrare molto più tardi nei ranghi viola con compiti, sembra, di rappresentanza. In tutti questi addii, insomma, ha prevalso la società, col sottinteso finale più o meno amaro, ma realistico, che la squadra resta, le bandiere anche quelli più amate devono, prima o poi, lasciare e rientrare nei ranghi. Far parte della memoria, della storia, ma perdere l’aura divina.
Uno solo resta nell’empireo, il più esterno dei cieli; nella concezione tomistica sede dei beati, la cui consistenza per Dante è “luce intellettual piena d’amore”: Francesco Totti. Tralasciando l’aggettivo dantesco, resta la destinazione, il luogo, l’empireo celestiale a cui i romanisti e non solo lo hanno innalzato. La devozione e l’ammirazione per un campione e una bandiera, sono divenuti culto.
Totti non è “il capitano”, ma un eroe, un’immortale, una figura che non si discute: si adora. Quando era divenuto un chiaro problema tattico-atletico, a Roma doveva giocare per forza. Scelse di non andare mai in un’altra squadra, ma il mutuo scambio tra A.S. Roma e il giocatore non è mai stato preso in considerazione. I rinnovi milionari anche in una carriera al tramonto, lo status d’intoccabile, l’aura divina li avrebbe forse mantenuti nel Real o nel Manchester United? E invece, la permanenza di Totti nella Roma è stata sempre e solo dettata dal suo “senso di generosa fedeltà”. In qualsiasi altra squadra “il Pupone” avrebbe cominciato assai prima la sua panchina e riconosciuti ridotti o addirittura negati, i rinnovi contrattuali. Ovunque, ma non nella Capitale dove appunto, è diventato quell’ eroe-talismano, simbolo eterno di gioia e riscatto d’ogni stagione. Di quelle radiose e di quelle grame. Perché va detto anche questo: se la Roma avesse navigato in acque alte, se Spalletti le avesse appuntato uno scudetto o Garcia non avesse terminato campionati al secondo posto, ma con 16 punti di distacco dalla prima, il potere taumaturgico di questo giocatore si sarebbe attenuato.
Invece, basta un accenno e il clamore, imperioso, torna a salire. Non solo: per presentare la sua biografia, scritta da Paolo Condò, oggi si aprono gli ingressi del Colosseo. E una banale rivelazione, come quella in cui Baldini avrebbe detto al giocatore che ormai la sua presenza (in campo) diventava un peso e che doveva iniziare per lui la nuova avventura nella società giallorossa, si urla non alla lesa maestà, ma, come con gli dei, alla blasfemia. Eppure l’aveva detto anche Totti, nell’apoteosi dell’addio, che c’è qualcuno più forte di tutti: il tempo. Altro che Pallotta, Spalletti, Baldini: il tempo non guarda in faccia nessuno, ma qualche colpevole, per gli adepti, ci vuole sempre. I più maliziosi, pensano a un qualche barbaglio di marketing, Paolo Condò addirittura parla di una manifesta “apertura di Totti a Baldini”, quando, patentemente, nell’italiano che si legge, si dice l’opposto. Fatto sta che questo banale accenno riscalda gli animi, riscopre tradimenti, riaccende furori: il Divino da una parte, il resto del mondo fuori.
Certo, se la A.S. Roma fosse prima in classifica, se avesse vinto al Bernabeu, se incantasse con un gioco spumeggiante, allora sarebbe, in parte, diverso. Forse l’equazione Totti-Roma diverrebbe oggi meno stringente a tutto vantaggio della squadra e non di un mito. Spalletti? Per carità, quello non s’invita.
Non tutti i giocatori-bandiera sono uguali, non tutti hanno lasciato il calcio allo stesso modo, non tutti sono stati salutati allo stesso modo. Quando Rivera (alto quoziente intellettivo in campo e fuori) provò a rientrare nel Milan da presidente, supportato da una cordata d’imprenditori, non ci riuscì, non bastò il suo carisma. A Maldini fu concesso un giro di campo e l’oblio. Zanetti, all’Inter, uscì dal campo con semplicità, senza fanfare, da dirigente, poi, ha rappresentato la spina dorsale societaria per continuità, abnegazione, capacità di ricucire e mantenere i rapporti con i giocatori. La Juve ha sempre scelto la chiarezza, talvolta per qualcuno, ai limiti della brutalità. A Del Piero fu chiaramente negato il rinnovo, a Buffon è stato dato di scegliere se entrare in società o continuare altrove. Antognoni restò ai margini, per rientrare molto più tardi nei ranghi viola con compiti, sembra, di rappresentanza. In tutti questi addii, insomma, ha prevalso la società, col sottinteso finale più o meno amaro, ma realistico, che la squadra resta, le bandiere anche quelli più amate devono, prima o poi, lasciare e rientrare nei ranghi. Far parte della memoria, della storia, ma perdere l’aura divina.
Uno solo resta nell’empireo, il più esterno dei cieli; nella concezione tomistica sede dei beati, la cui consistenza per Dante è “luce intellettual piena d’amore”: Francesco Totti. Tralasciando l’aggettivo dantesco, resta la destinazione, il luogo, l’empireo celestiale a cui i romanisti e non solo lo hanno innalzato. La devozione e l’ammirazione per un campione e una bandiera, sono divenuti culto.
Totti non è “il capitano”, ma un eroe, un’immortale, una figura che non si discute: si adora. Quando era divenuto un chiaro problema tattico-atletico, a Roma doveva giocare per forza. Scelse di non andare mai in un’altra squadra, ma il mutuo scambio tra A.S. Roma e il giocatore non è mai stato preso in considerazione. I rinnovi milionari anche in una carriera al tramonto, lo status d’intoccabile, l’aura divina li avrebbe forse mantenuti nel Real o nel Manchester United? E invece, la permanenza di Totti nella Roma è stata sempre e solo dettata dal suo “senso di generosa fedeltà”. In qualsiasi altra squadra “il Pupone” avrebbe cominciato assai prima la sua panchina e riconosciuti ridotti o addirittura negati, i rinnovi contrattuali. Ovunque, ma non nella Capitale dove appunto, è diventato quell’ eroe-talismano, simbolo eterno di gioia e riscatto d’ogni stagione. Di quelle radiose e di quelle grame. Perché va detto anche questo: se la Roma avesse navigato in acque alte, se Spalletti le avesse appuntato uno scudetto o Garcia non avesse terminato campionati al secondo posto, ma con 16 punti di distacco dalla prima, il potere taumaturgico di questo giocatore si sarebbe attenuato.
Invece, basta un accenno e il clamore, imperioso, torna a salire. Non solo: per presentare la sua biografia, scritta da Paolo Condò, oggi si aprono gli ingressi del Colosseo. E una banale rivelazione, come quella in cui Baldini avrebbe detto al giocatore che ormai la sua presenza (in campo) diventava un peso e che doveva iniziare per lui la nuova avventura nella società giallorossa, si urla non alla lesa maestà, ma, come con gli dei, alla blasfemia. Eppure l’aveva detto anche Totti, nell’apoteosi dell’addio, che c’è qualcuno più forte di tutti: il tempo. Altro che Pallotta, Spalletti, Baldini: il tempo non guarda in faccia nessuno, ma qualche colpevole, per gli adepti, ci vuole sempre. I più maliziosi, pensano a un qualche barbaglio di marketing, Paolo Condò addirittura parla di una manifesta “apertura di Totti a Baldini”, quando, patentemente, nell’italiano che si legge, si dice l’opposto. Fatto sta che questo banale accenno riscalda gli animi, riscopre tradimenti, riaccende furori: il Divino da una parte, il resto del mondo fuori.
Certo, se la A.S. Roma fosse prima in classifica, se avesse vinto al Bernabeu, se incantasse con un gioco spumeggiante, allora sarebbe, in parte, diverso. Forse l’equazione Totti-Roma diverrebbe oggi meno stringente a tutto vantaggio della squadra e non di un mito. Spalletti? Per carità, quello non s’invita.