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Timossi: Mourinho è l'italiano vero di Cutugno. Come Allegri
Mou è un italiano vero. Qualche anno fa, metà ottobre del 2008, José Mourinho viaggiava su un volo decollato dall’aeroporto internazionale di Bucarest (Otopeni) per Milano Malpensa. Con lui nella classe business dell’airbus Alitalia volava un pezzo di storia, uno che ha fatto della canzone italiana un’eccellenza (rassegnatevi, nell’era renziana degli apericena pare si parli così), uno che non va più al Festival di Sanremo, ma che con le sue foto riesce ancora a mandare in tilt Facebook. Un mito in due parole, Toto Cutugno, nome e cognome. In quella business, quella sera, viaggiavano tre persone. Il terzo ero io, ma è solo un dettaglio, all’epoca facevo l’inviato per la Gazzetta dello Sport, seguivo la nazionale romena di Mutu e Chivu e visto che RCS quotidiani offriva ogni possibile comodità ai suoi giornalisti.
Mou era andato come me a Costanza (con Timisoara la più suggestiva città romena) per seguire una gara tra Romania e Francia, in campo Chivu e Vieira, al rientro. In verità il francese era annunciato, ma non giocò, si bloccò durante il riscaldamento. Forse Mou andò sul Mar Nero per quello, forse per vedere un roccioso difensore centrale della Romania, Dorin Goian, che poi l’Inter fece comprare al Palermo e finì la sua carriera italiano nello Spezia, prima di emigrare povero lui nell’Asteras Tripolis. Altra ipotesi diceva che fosse arrivato per osservare Mirel Radoi, capitano della Steaua Bucarest, giocatore della potente scuderia Becali. Chiesi a Mou perché fosse andato fino a Costanza, lui sistemò nella cappelliera dell’aereo un antico specchio acquistato da un antiquario locale, si tolse gli occhiali da sole, svelò le sue (immancabili) occhiaie, mi strizzò l’occhio e disse: “Affari miei”.
Questi dettagli servono solo per raccontare un incontro meraviglioso: Mou e Toto, l’interista e il milanista, meglio della stretta di mano tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II, da Teano ai cieli d’Europa. Mou sapeva tutto di Toto, anche più di quanto Toto sapesse di Mou. Parlavano del Festival di Sanremo, di Albano e Romina, del Fado lusitano e di Amalia Rodriguez. Mou sapeva qualsiasi cosa, io ascoltavo e alla fine ascoltava anche Toto. Toto raccontò di alcuni seri problemi di salute, di come li avesse affrontati e superati. Allora ascoltava Mou, composto e coinvolto. Non ricordo se Mourinho avesse già pronunciato una delle sue frasi più celebri, “chi sa solo di calcio non sa nulla di calcio”. Per me la disse in quella cabina pressurizzata e dopo aver enunciato il suo teorema lo dimostrò e alla fine canticchiò “sono un italiano, un italiano vero”.
Mou aveva una voce fantastica, ovvio ce l’ha ancora. E io quel giorno di innamorai (virilmente) di lui. Non ho mai tifato per l’Inter, non ho mai tifato per i vincenti. Per essere pignoli ho sempre avuto una passione viscerale per le lacrime degli sconfitti, è una sindrome dalla quale prima o poi guarirò. Ma per Mourinho e la sua Inter ho fatto un’eccezione, la tragicità delle sue vittorie mi ha esaltato. Mou vince la Champions e se ne va, come aveva fatto con il Porto. Con i dragoni Mou vince a sorpresa, si sfila la medaglia dal collo e vola via. Con i nerazzurri trionfa, conquista il Triplete, abbraccia Marco Materazzi. Piange lui, piange l’altro, piangono tutti e con una lacrima sul viso il tecnico sale su un’auto messa a disposizione dal presidente Florentino Perez, si fa accompagnate due isolato più avanti e firma un nuovo contratto con il Real Madrid.
Mou fa quello che dice e quello che altri non dicono, ma probabilmente neppure pensano. Come adesso, alla fine di Paris Saint Germain-Chelsea. I suoi blu di Londra hanno pareggiato 1-1 e rischiato grosso contro i francesi. Infatti l’allenatore portoghese lo ammette, senza nessun giro di parole: “Ci ha salvato il nostro portiere”. Questo è Mou. Poi, nel suo (perfetto) italiano con le cadenze del Fado, risponde come sempre alle domande dei giornalisti italiani: "Mi chiedete dell'Inter? Per me l'Inter sono i tifosi, oltre i suoi tecnici, i suoi presidenti, i suoi giocatori: spero che vinca l'Europa League e torni presto in Champions”. Non c’è l’Inter di Mancini o quella di Mou (in verità l’Inter di Mourinho resterà per sempre), l’Inter di Moratti o quella di Thohir. Esiste l’Inter degli interisti e basta. Una frase così la possono dire tutti, ma io credo solo a Mou. Gli credo anche, soprattutto, quando ti sfida, alza la fronte e vuol farti credere che nel suo paradosso c’è una menzogna.
Faceva qualcosa di simile il mio maestro, Franco Scoglio, professore del calcio e del Genoa. Ma nella parole dell’uomo di Lipari c’era più rabbia, probabilmente minore sicurezza e dunque più dolcezza. Mou non dice che tornerà a Milano, non dice “non si sa mai”, ma forse un giorno tornerà davvero. Lo ha già fatto, al Chelsea. Certo, a Londra lo hanno riportato le sterline di Abramovic, ma anche di questo Mou non ha mai fatto mistero. Io lo spero, voglio che torni, perché mi manca il suo calcio, mi mancano le sue battute su Lo Monaco di Tibèt e i cazzotti sulle spalle dei suoi uomini e pure le sue manette che tanto scandalizzarono gli assurdi benpensanti del “questo non si può”.
Nell’attesa mi consolo con Roberto Mancini e Massimiliano Allegri. Del primo ho recentemente parlato con l’interista, collega e amico Michele Brambilla. Io sostenevo che il gioco dell’Inter non fosse particolarmente migliorato nel passaggio da Mazzarri a Mou. “Può essere, ma Mancini ha portato un’aria nuova, Mancini mette allegria e l’allegria alla fine ci farà vincere”, era la sua sintesi. Può essere, Mancini non è come Mou, ma quasi. Intanto è bello pure lui e infatti andrebbe benissimo per quella vecchia pubblicità londinese dove lo Special One apriva un ombrello dieci secondi prima che iniziasse a piovere. Di Allegri dico invece una cosa che probabilmente farà inorridire molti e soprattutto parecchi juventini. La cosa è questa: oggi Allegri è l’allenatore del campionato italiano che più mi ricorda Mourinho. Non ha le eruzioni verbali del portoghese, ma ha lo stesso sguardo, furbo e magnetico. Ha la stessa idea che “chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio”. La stessa smania di vincere. E se saprà vincere anche in Champions non avrò più dubbi: Allegri, un italiano vero.
Mou era andato come me a Costanza (con Timisoara la più suggestiva città romena) per seguire una gara tra Romania e Francia, in campo Chivu e Vieira, al rientro. In verità il francese era annunciato, ma non giocò, si bloccò durante il riscaldamento. Forse Mou andò sul Mar Nero per quello, forse per vedere un roccioso difensore centrale della Romania, Dorin Goian, che poi l’Inter fece comprare al Palermo e finì la sua carriera italiano nello Spezia, prima di emigrare povero lui nell’Asteras Tripolis. Altra ipotesi diceva che fosse arrivato per osservare Mirel Radoi, capitano della Steaua Bucarest, giocatore della potente scuderia Becali. Chiesi a Mou perché fosse andato fino a Costanza, lui sistemò nella cappelliera dell’aereo un antico specchio acquistato da un antiquario locale, si tolse gli occhiali da sole, svelò le sue (immancabili) occhiaie, mi strizzò l’occhio e disse: “Affari miei”.
Questi dettagli servono solo per raccontare un incontro meraviglioso: Mou e Toto, l’interista e il milanista, meglio della stretta di mano tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II, da Teano ai cieli d’Europa. Mou sapeva tutto di Toto, anche più di quanto Toto sapesse di Mou. Parlavano del Festival di Sanremo, di Albano e Romina, del Fado lusitano e di Amalia Rodriguez. Mou sapeva qualsiasi cosa, io ascoltavo e alla fine ascoltava anche Toto. Toto raccontò di alcuni seri problemi di salute, di come li avesse affrontati e superati. Allora ascoltava Mou, composto e coinvolto. Non ricordo se Mourinho avesse già pronunciato una delle sue frasi più celebri, “chi sa solo di calcio non sa nulla di calcio”. Per me la disse in quella cabina pressurizzata e dopo aver enunciato il suo teorema lo dimostrò e alla fine canticchiò “sono un italiano, un italiano vero”.
Mou aveva una voce fantastica, ovvio ce l’ha ancora. E io quel giorno di innamorai (virilmente) di lui. Non ho mai tifato per l’Inter, non ho mai tifato per i vincenti. Per essere pignoli ho sempre avuto una passione viscerale per le lacrime degli sconfitti, è una sindrome dalla quale prima o poi guarirò. Ma per Mourinho e la sua Inter ho fatto un’eccezione, la tragicità delle sue vittorie mi ha esaltato. Mou vince la Champions e se ne va, come aveva fatto con il Porto. Con i dragoni Mou vince a sorpresa, si sfila la medaglia dal collo e vola via. Con i nerazzurri trionfa, conquista il Triplete, abbraccia Marco Materazzi. Piange lui, piange l’altro, piangono tutti e con una lacrima sul viso il tecnico sale su un’auto messa a disposizione dal presidente Florentino Perez, si fa accompagnate due isolato più avanti e firma un nuovo contratto con il Real Madrid.
Mou fa quello che dice e quello che altri non dicono, ma probabilmente neppure pensano. Come adesso, alla fine di Paris Saint Germain-Chelsea. I suoi blu di Londra hanno pareggiato 1-1 e rischiato grosso contro i francesi. Infatti l’allenatore portoghese lo ammette, senza nessun giro di parole: “Ci ha salvato il nostro portiere”. Questo è Mou. Poi, nel suo (perfetto) italiano con le cadenze del Fado, risponde come sempre alle domande dei giornalisti italiani: "Mi chiedete dell'Inter? Per me l'Inter sono i tifosi, oltre i suoi tecnici, i suoi presidenti, i suoi giocatori: spero che vinca l'Europa League e torni presto in Champions”. Non c’è l’Inter di Mancini o quella di Mou (in verità l’Inter di Mourinho resterà per sempre), l’Inter di Moratti o quella di Thohir. Esiste l’Inter degli interisti e basta. Una frase così la possono dire tutti, ma io credo solo a Mou. Gli credo anche, soprattutto, quando ti sfida, alza la fronte e vuol farti credere che nel suo paradosso c’è una menzogna.
Faceva qualcosa di simile il mio maestro, Franco Scoglio, professore del calcio e del Genoa. Ma nella parole dell’uomo di Lipari c’era più rabbia, probabilmente minore sicurezza e dunque più dolcezza. Mou non dice che tornerà a Milano, non dice “non si sa mai”, ma forse un giorno tornerà davvero. Lo ha già fatto, al Chelsea. Certo, a Londra lo hanno riportato le sterline di Abramovic, ma anche di questo Mou non ha mai fatto mistero. Io lo spero, voglio che torni, perché mi manca il suo calcio, mi mancano le sue battute su Lo Monaco di Tibèt e i cazzotti sulle spalle dei suoi uomini e pure le sue manette che tanto scandalizzarono gli assurdi benpensanti del “questo non si può”.
Nell’attesa mi consolo con Roberto Mancini e Massimiliano Allegri. Del primo ho recentemente parlato con l’interista, collega e amico Michele Brambilla. Io sostenevo che il gioco dell’Inter non fosse particolarmente migliorato nel passaggio da Mazzarri a Mou. “Può essere, ma Mancini ha portato un’aria nuova, Mancini mette allegria e l’allegria alla fine ci farà vincere”, era la sua sintesi. Può essere, Mancini non è come Mou, ma quasi. Intanto è bello pure lui e infatti andrebbe benissimo per quella vecchia pubblicità londinese dove lo Special One apriva un ombrello dieci secondi prima che iniziasse a piovere. Di Allegri dico invece una cosa che probabilmente farà inorridire molti e soprattutto parecchi juventini. La cosa è questa: oggi Allegri è l’allenatore del campionato italiano che più mi ricorda Mourinho. Non ha le eruzioni verbali del portoghese, ma ha lo stesso sguardo, furbo e magnetico. Ha la stessa idea che “chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio”. La stessa smania di vincere. E se saprà vincere anche in Champions non avrò più dubbi: Allegri, un italiano vero.