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    Tifiamo Italia: senza 'l'obbligo' della maglia azzurra, vestiti come ci pare

    Tifiamo Italia: senza 'l'obbligo' della maglia azzurra, vestiti come ci pare

    • Giampiero Timossi
    Vestiamoci come possiamo. E come ci pare. Mio nonno Francesco era un uomo meraviglioso e io non ho mai smesso di amarlo. Era nato a Lentiai, provincia di Belluno, sulla linea del Piave, sul fronte della prima guerra mondiale. Chiamarla Grande Guerra? Nonno non ci pensava proprio. Gli aveva portato via una madre e la sorella più piccola. Uccise dalla fame. Nonno era cresciuto con sua nonna Genoveffa e una voglia di zucchero sul braccio destro. Nonna lo mandava a pascolare la pecora. Un giorno lui si stufò, fece mangiare all'animale l'erba medica, lo portò a bere nel Piave e la pecora tirò le cuoia. Fu l'unica carognata della vita di mio nonno. Nonno Checco scappò dalla fame quando lo arruolarono del Regio Esercito italiano. Artiglieria da montagna. Fece due anni di ferma, un mese prima del congedo l'Italia entrò nella seconda guerra mondiale. Albania, Grecia, la cattura dei tedeschi dopo l'armistizio, la prigionia in Germania, la fame di nuovo, una sigaretta regalata dagli americani, il giorno della liberazione, “che mi salvò la vita, perché io fumai, mentre altri compagni di prigionia mangiarono troppo e vista la fame che avevamo sopportato lo stomacò non riuscì a reggere quel cibo arrivato all'improvviso”.

    Nonno, finite tutte le guerre della sua vita, arrivò a Genova, conobbe sul tram nonna Pierina, che aveva sposato nonno Emilio, papà di mia mamma. Nonno Emilio era stato un partigiano genovese, arrestato dai fascisti, consegnato ai nazisti, torturato alla Casa dello Studente, deportato e ucciso in Germania. Nonna Pierina era triste e forte, nonno Checco le regalò un sorriso. Non si lasciarono più. Lui diventò un buon padre e il migliore dei nonni possibili. Fece l'operaio, mai un ritardo, mai un richiamo, spille e penne ricordavano il suo impegno in raffineria. Socialista non flirtava con i padroni, ma aveva rispetto e un certo affetto per la famiglia Garrone, i suoi datori di lavoro.  
     
    La sera che l'Italia vinse i Mondiali del 1982 io e mio fratello stavamo seduti sul divano di velluto grigio, nel salotto dei nonni. Nonna era vicina a noi, nonno stava seduto sulla sua poltrona, con una camicia a quadri bianchi e azzurri, a maniche corte. Non ricordo il colore dei calzoni, ma la cintura sì, era sempre la stessa, l'aveva aggiustata mille volte. Al gol di Altobelli nonno ci baciò sulla  fronte e disse: “Ora vado a dormire, che è già troppo tardi”. Il giorno dopo, avevo appena compiuto 13 anni, mi misi sulla maglietta una coccarda tricolore, presa in regalo con un settimanale, credo l'Europeo. Nonno la vide e sorrise: “Lascia stare, queste sono cose serie, non si mettono per il calcio”.  
    L'ultima partita che vidi con nonno fu la finale agli Europei 2000, contro la Francia. La prese male, a Checco francesi, tedeschi e inglesi piacevano poco. Meglio gli italiani e gli americani. La sera che l'Italia sconfisse la Francia e vinse un altro Mondiale, Checco non c'era più. Quelle sigarette, che lo salvarono il giorno della sua liberazione, alla fine gli distrussero i polmoni. Nel suo portafoglio trovai la foto di sua mamma e sua sorella, quella di mio fratello e mia, la patente, il permesso di pesca. E un ritaglio di giornale con il testo integrale dell'Inno di Mameli. 
     
    Penso sempre a nonno. Ho pensato a lui anche quando ho sentito questa storia di Conte, del “mettiamoci tutti la maglia azzurra”. Molti giornali, molte tv, gli vanno dietro, festanti. Così la super retorica già incorona Conte e pure il presidente Figc Tavecchio, sono loro i nuovi eroi nazionali. La cosa non mi scandalizza, non mi entusiasma, però mi infastidisce. La storia siamo noi, vestiti come possiamo, come vogliamo, come ci pare. ll calcio è calcio, un gioco meraviglioso, alcune altre cose, ma non è tutto. E credo non basti indossare una maglia azzurra per essere italiani un po' migliori. L'Italia della Repubblica l'hanno fatta anche quelli che hanno perso una guerra. Non pretendano di cambiarla quelli che vinceranno al massimo una finale. 

     

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