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Tevez dice basta: il campione della gente, l'unico, più di Messi, a poter sedere davvero alla destra di Maradona
Ha iniziato e chiuso con il Boca Juniors: tre anni per prendere la rincorsa e farsi un nome (2001-2004) e sei, questi ultimi (2015-2017 e 2018-2022, con una breve interruzione per andare a fare cassa in Cina), per dare un senso al proprio girovagare che l’ha portato in Brasile (Corinthians), Inghilterra (West Ham e le due sponde di Manchester, United e City), Italia (2013-2015, un anno con l’ultimo Conte e un anno con il primo Allegri) e appunto Cina (Shanghai Shenhua, scelto perché - così disse - “ho bisogno di rilassarmi”). Tevez - il corpo quasi tozzo, ma robustissimo - è stato un attaccante che nelle giornate di grazia risultava imprendibile. Aveva un piede dolce (il destro), un tiro secco e formidabile, una tigna da pirata, un abbrivio da scattista. Ha vinto molto in giro per il mondo, ma se il Tevez più furente e luminoso è stato quello apparso all’inizio al Boca e quello che nel 2004 vinse l’oro con l’Argentina alle Olimpiadi di Atene (8 gol per lui, che si prese il titolo di capocannoniere), il Tevez migliore dal punto di vista realizzativo si è visto nelle due stagioni iniziali al City (23 e 20 gol in Premier League, era la squadra di Roberto Mancini) e nei due anni alla Juve, quando chiuse con uno score di tutto rispetto: 19 e 20 gol in Serie A.
L’immagine stessa di Carlitos rimanda a una storia di miseria e riscatto, una storia da serie tv (che infatti è stata realizzata con buona aderenza alla realtà e mandata in onda su Netflix). Carlitos è cresciuto nel barrio di Ciudadela alle porte di Buenos Aires, un posto con un alto tasso di criminalità noto come Ejército de los Andes, che nel gergo popolare ha preso il nome “Fuerte Apache” dal noto film con Paul Newman, “Fort Apache - The Bronx”. “Quando giocavamo dovevamo scansare i proiettili che volavano sulle nostre teste”, ha ricordato quando ha presentato il suo biopic. Da qui deriva il suo soprannome, l’Apache. Per le origini, per il carattere ribelle, per quella naturale inclinazione ad affrontare tutto e tutti a brutto muso. Gli elementi di una vita border line ci sono tutti: Carlitos non ha conosciuto il padre (ucciso in uno scontro a fuoco prima che lui nascesse), è stato abbandonato dalla madre biologica a soli tre mesi ed è cresciuto con gli zii materni. La traccia di una vita difficile è anche riscontrabile nelle cicatrici che ha sul viso, sul petto e sul collo: quando aveva dieci mesi gli cadde sul viso l’acqua bollente di un recipiente, rimase due mesi in terapia intensiva. Quelle cicatrici sono diventate nel tempo il suo tratto distintivo.
Nel calcio Tevez ha trovato la sua valvola di sfogo, la sua ancora di salvezza. Sparse qua e là, ha lasciato alcune perle favolose: valga per tutti il gol segnato al Parma con la maglia della Juve, partendo dalla propria metà campo e scartando una manciata di avversari. Con l’Albiceleste ha reso meno di quanto era lecito attendersi. 76 presenze, soltanto 13 gol dal debutto nel 2004 fino all’ultima partita, nel 2015. Due le partecipazioni (deludenti) alla Coppa del Mondo, nel 2006 e nel 2010, quando il CT era Maradona. E dire che nel suo periodo c’è stata la più grande infornata di talenti argentini degli ultimi quarant’anni. Ha fatto coppia con grandissimi attaccanti, da Wayne Rooney al Kun Aguero, da Dzeko a Higuain in Nazionale; e mai si è limitato al ruolo di spalla, reclamando sempre spazio e meriti con la personalità che lo ha contraddistinto. Alla Juve arrivò dopo la rottura con Mancini al City. In realtà sarebbe dovuto finire al Milan. Era già tutto fatto, ma Berlusconi bloccò la cessione di Pato (fidanzato con la figlia del presidente, Barbara) e l’acquisto di Tevez saltò. Sarebbe stata un’altra storia, non la sua.