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  • Tardelli, sessant'anni da urlo

    Tardelli, sessant'anni da urlo

    L’urlo ha sessant’anni. Pensavamo di averlo coperto coi pianti di dolore per un calcio malato, triste, straziato. Credevamo di averlo abbassato di un tono o due quando i ragazzi di Marcello Lippi, nel 2006, erano partiti per una gita in Germania ed erano tornati con la Coppa del Mondo come souvenir. Visto, dicevano, finalmente possiamo mettere via la nostalgia del 1982, e invece. Nel giro di subito ci siamo accorti che l’estate di quell’anno, con Bearzot che giocava a carte insieme a Pertini, Bruno Conti che dribblava pure la luna e le stelle, con Scirea simbolo d’eleganza, Altobelli che alzava le braccia e si faceva spillo sul serio e tutti gli altri, ci siamo accorti che tutto quello era ben più di una storia annebbiata di rimpianto: era l’Italia, l’Italia che non c’è più.

    Oggi che Marco Tardelli (foto vavel.com) compie sessant’anni, il suo urlo contro il mondo è ancora lì a spaccarci i timpani e a dirci sveglia, non può finire tutto così. Da un po’ di tempo Tardelli commenta le partite in tv. Lo fa per mamma Rai, nel frattempo diventata un po’ più vecchia e acciaccata anche lei. Si è imbolsito, ma nemmeno troppo, e l’insonnia che aveva prima delle partite ora gli viene per colpa dell’età. Una volta le ragazzine andavano al campo di allenamento per chiedergli l’autografo. Ma quando lo guardavano negli occhi finiva che non spiccicavano una parola. In gioventù è stato un sex symbol ombroso ma leale.

    Oggi è, come tutti quelli diventati grandi, esperienza e calma. Ha detto: «Quello che mi manca davvero è l’atmosfera di quel calcio. Lasciamo stare la società in genere, il discorso ci porterebbe lontano» Restando confinati nell’anima di un pallone fatto di cuoio e poco altro, Tardelli riconosce come il gioco «allora fosse più felice e divertente». Anzi, puntualizza, «diciamo proprio che era sport: adesso invece è spettacolo, e non nel senso migliore del termine».
     
    Erano passate due guerre. Dopo la gente aveva preso a lavorare, a ricostruire, e fare un po’ di soldi, e si comprava la casa e la lavatrice e anche l’automobile. Più tardi erano arrivate le lotte studentesche. Per un mondo migliore, dicevano: ma lasciamo stare. Gli Anni Ottanta si erano aperti con le stragi e con l’idea che la modernità fosse là, a due spanne dal naso. Tutta quella Storia, tutta quella Storia compressa nell’anima degli italiani doveva pur esplodere, da qualche parte. Lo face Tardelli, una notte di luglio al Bernabeu.

    Era l’Italia che per guadagnarsi le cose faceva i sacrifici. Quando giocava nel Pisa, prima di diventare il jolly della Juventus, Marco andava a fare il cameriere part-time vicino a Piazza dei Miracoli. Diceva: «Ce la farò, diventerò un uomo». Un giorno entrò Dino Zoff e ordinò un caffè. Marco lo servì e gli chiese anche un autografo. Quando pochi anni dopo si ritrovarono alla Juve, Marco gli ricordò quell’episodio. Allora Dino chiamò gli altri e disse: «Oh, abbiamo preso un cameriere». Altri tempi, altre storie. Quando a Spagna ’82 Marco ricevette quel pallone e tirò, la Germania diventò piccolissima. Poi Tardelli prese a correre sul prato, i pugni roteati nel vento, grida di passione. Che non si spegne nemmeno oggi, e anzi un po’ ci manca. Alziamo il volume dell’urlo, allora. Sai che liberazione.

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