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    Suarez, l'uomo dietro il campione. Senza Luisito l'Inter non sarebbe mai diventata Grande

    Suarez, l'uomo dietro il campione. Senza Luisito l'Inter non sarebbe mai diventata Grande

    • Giancarlo Padovan
      Giancarlo Padovan
    Una decina di anni fa frequentavamo la stesso bar. E non c’era sabato, al mercato di via Fauché, a Milano, in cui non ci incontrassimo e ci mettessimo a parlare di calcio e di vita. Luis Suarez Miramontes, morto a 88 anni, è stato il campione più autentico e più cristallino della Grande Inter del mago Herrera. Dell’istrionico allenatore diceva con soave ironia: “Non ho mai detto che era tirchio, ho detto solo che in tanti anni di conoscenza e frequentazione, non mi ha offerto nemmeno un caffè”.

    E nelle nostre comuni apparizioni televisive, quando i giovani giornalisti come me, pretendevano di discettare di tattica, era solito fare una rivendicazione culturale: “Di schemi non capisco niente, ma di calcio sì”. Era il suo modo, sempre appropriato e gentile, per ribadire che il ventennio, tra il ’53 e il ’73, in campo, l’aveva caratterizzato lui e, dopo, era stato un buon allenatore, fino a conquistare il titolo di campione d’Europa con l’Under 21 della Spagna. Naturalmente era stato anche allenatore dell’Inter (due volte) e delle Furie Rosse senza però toccare i vertici che raggiunse da calciatore.

    Quando arrivò in Italia, nel 1961, aveva già vinto il Pallone d’Oro (l’anno precedente) e, con il Barcellona, conquistato due campionati spagnoli, la Copa del Rey e la Coppa delle Fiere. Nativo di La Coruna, in Galizia, una splendida città piovosa, Suarez, detto Luisito, diventa l’uomo in più dell’allenatore Helenio Herrera che aveva già avuto al Barcellona. Con l’Inter, che, grazie a campioni straordinari, diventa Grande per antonomasia, vince tre scudetti, due coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali.

    Ma che calciatore era Suarez? Fu il primo regista classico, capace di un lancio di quaranta metri, precisissimo, che sapeva innescare i famosissimi contropiede del Mago. Il quale, va da sé, oggi lo piazzerebbe davanti alla difesa per costruire, con trame corte, la manovra. Luisito era dotato di una tecnica raffinatissima e, allora si diceva così, aveva una visione di gioco sviluppatissima. Quasi tutti i palloni passavano da lui e nessuno era mai giocato in maniera scontata. Senza di lui l’Inter ci sarebbe stata comunque, ma Grande non lo sarebbe mai diventata, tanta era la dipendenza da quel calciatore essenziale ed elegante che estasiava San Siro e la platee di tutta Italia. Suarez chiuse la sua lunga stagione di creativo alla Sampdoria dove, seppur in maniera liofilizzata, sapeva ancora distribuire la sua classe.

    Come quasi tutti i grandissimi in campo (unica eccezione Cruyff), Suarez non ha saputo rinverdire i fasti calcistici guidando dalla panchina. E’ vero che nel 1986 portò l’Under 21 della Spagna sul tetto d’Europa (battuta, ai rigori, l’Italia di Vicini), ma né con la Nazionale maggiore, né con l’Inter fu fortunato e celebrato. Forse, per un calcio che aveva già cominciato a cambiare, la sua dimensione più autentica fu quella di commentatore: intelligente, vivido, educato, piacevole. Da alcuni anni non si vedeva più nemmeno al bar di via Fauché, la sua agorà personale, dove, con la semplicità dei grandi, dispensava aneddoti e curiosità. Un uomo ricco che all’Italia, non solo quella calcistica, ha dato molto del suo sapere e della sua umanità. Ci mancava, ci mancherà.

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