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Suarez e il fascino del calcio: quando l'amore per la Juve scavalca la deontologia
Non ci sono certezze, ripetiamo. Lasciamo che le indagini vadano avanti (anche se la Procura di Perugia le ha momentaneamente bloccate), senza ingigantire e senza minimizzare. Aspettiamo. Però, invece, nella vicenda dell’“esame d’italiano” almeno una cosa chiara, a tutt’oggi, emerge. La potenza, la fascinazione del calcio e della grande squadra, che tutto travolge: regole, istituzioni, ruoli. Il rettore Olivero (quello dell’Università di Perugia da non confondere con l’altra per stranieri) intravede nella possibilità di esaminare un calciatore famoso un’occasione da non perdere per la città, uno “spot” per Perugia. Un tempo, le Università davano lauree honoris causa a scienziati, scrittori, studiosi, artisti; oggi non vedono l’ora di promuovere un trequartista, un centrale, un portiere. Risultava difficile che un rettore si prodigasse a seguito d’una telefonata con un emissario d’una squadra di calcio, ma ora s’entusiasma perché, come si dirà in seguito, “questo (Paratici) conta più di Mattarella”.
Intendiamoci, fa parte della generale deriva, iniziata molti anni fa che andava sotto il nome di “società dello spettacolo” ovvero riduzione della politica e della cultura (e della realtà) a mero spettacolo, scena, apparenza che i social non hanno certo inventato, ma esasperato. Se Fedez o Morgan tengono lezioni all’Università perché un onesto pedatore da 10 milioni di Euro all’anno non dovrebbe essere da meno? Non siamo, forse, in un’epoca in cui Briatore non è considerato un maitre (d’hotel), bensì un maitre a penser di cui si riportano “pensieri e parole” h. 24?
L’altro elemento è il tifo, che tutto trapassa e trascende, come se la dimensione (e la rappresentazione) calcistica fosse un credo avulso da qualsiasi limite, una zona franca della personalità, una passione indiscutibile e irrefrenabile, incapace di conoscere limiti. “Con lui (sempre Suarez) vinciamo la Champions” avrebbe detto la docente di glottologia e linguistica Stefania Spina, travolta da un raptus dionisiaco di fronte al campione, lasciando da parte, parrebbe, più elementari dilemmi deontologici. Sì, il calcio è una fede.