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    Il calcio e la parità dei sessi: l'esempio Norvegia e la follia Irlanda

    Il calcio e la parità dei sessi: l'esempio Norvegia e la follia Irlanda

    • Federico Zanon
    Una rivoluzione, partita dalla Norvegia, destinata a investire il mondo del calcio. Dalle parti di Oslo sono particolarmente sensibili e attenti ai concetti di uguaglianza e parità dei sessi, quanto ottenuto dalla nazionale femminile di calcio è destinato a fare scuola. Caroline Graham Hansen e compagne hanno avuto dalla federazione norvegese lo stesso trattamento economico della selezione maschile, di fatto uno stipendio collettivo annuo di circa 697 mila euro. Un deciso passo in avanti rispetto agli attuali 330 mila euro, risultato di una battaglia nella quale la nazionale maschile (che sul campo ha ottenuto risultati decisamente più scadenti) ha dato il suo contributo, scendendo a circa 639 mila euro e rinunciando una parte degli introiti derivanti dalle sponsorizzazioni commerciali. 

    STATI UNITI - Un nuovo inizio, un nuovo esempio, per un mondo, quello femminile, troppo spesso bistrattato e sottovaluto, in molte aree del mondo etichettato come "di serie B". La Norvegia è il primo Paese nel quale c'è lo stesso trattamento, ma non è il primo a fare qualcosa per la sfera femminile. Negli Stati Uniti, la nazionale che ha vinto più di tutti con tre Mondiali e quattro ori Olimpici, le giocatrici con in testa Hope Solo e Alex Morgan si sono rivolte alla Commissione federale per le pari opportunità per avere lo stesso trattamento degli uomini. La netta distanza salariale è rimasta, ma grazie un accordo tra le federazioni americane, le più forti del mondo hanno avuto aumenti nelle paghe di base, bonus per le vittorie e più sostegno finanziario nei casi di gravidanza.

    DANIMARCA - In Danimarca il traguardo non è stato ancora raggiunto ma l'obiettivo è lo stesso. Con la battaglia che è andata oltre la semplice dialettica: il mese scorso la nazionale guidata da Pernille Harder, uno degli attaccanti più forti del mondo, che gioca in Germania con il Wolfsbrug, si è rifiutata di scendere in campo per l'amichevole da tutto esaurito con l'Olanda campione d'Europa e ha dato la sua disponibilità a giocare il match di qualificazione al Mondiale (successo 6-1 con l'Ungheria) solo di fronte un'apertura da parte della federazione alla richiesta di rivalutazione economica. Il problema è più grave di quello che sembra: le giocatrici incassano dalla federazione 300 euro per ogni impegno ufficiale (per le amichevoli non è previsto nessun tipo di rimborso) ma non sono considerate dipendenti, anche se passano all'anno circa 70 giorni a disposizione della nazionale. Uno stipendio, in un sistema che non è del tutto professionistico (alcune giocatrici fanno altri lavori e spesso sono obbligate a predere giorni di ferie o permessi per non saltare raduni e partite), troppo basso per vivere. La trattativa prosegue, un aiuto può arrivare, anche in questo caso, dalla selezione maschile, che si è detta pronta a rinunciare a 500 mila corone danesi, circa 70 mila euro per supportare le richieste della squadra femminile. 

    IRLANDA - In altri Paesi, come l'Irlanda, l'uguaglianza salariale è una chimera. A livello femminile mancano strutture e servizi di base, come uno staff medico di primo livello. Lo scorso aprile il capitano Emma Byrne e l'attaccante Aine O'Gorman hanno minacciato, insieme ad altre compagne, uno sciopero per migliorare le condizioni, attualmente inaccettabili. Qualche esempio? L'obbligo di cambiarsi nei bagni pubblici o di condividere la tuta di allenamento o di rappresentanza con le selezioni giovanili. Follia pura, le donne devono avere gli stessi diritti degli uomini. Anche nel calcio.

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