Spalletti, che Italia siamo?
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Il disclaimer iniziale è necessario: non vuole essere un articolo polemico. Tantomeno un processo. Quello di Luciano Spalletti per altro è un ciclo che è solo all’inizio e il cui primo obiettivo è riportare l’Italia ai Mondiali tra due anni; una competizione che negli Stati Uniti, semmai ci qualificheremo, non giocheremo da 12 anni – e in cui non disputiamo una partita nella fase a scontro diretto addirittura dalla finale di Berlino 2006. Sì, quella di Marco Materazzi, della parata di Buffon ai supplementari, della testata di Zidane, del magico Fabio Grosso ultimo rigorista. Quella dei Campioni del Mondo. Vent’anni.
IL DUBBIO - Dunque figuriamoci se ci mettiamo a fare un processo a Spalletti ancor prima di iniziare, casomai il titolo vi avesse tratto in inganno. No, nessuna polemica. Più che altro una constatazione, una domanda – legittima – che gira anche tra i colleghi: “che Italia siamo?”. Che Italia siamo, a oggi, a poche ore ormai dall’esordio del 15 giugno a Dortmund contro l’Albania, è in verità ancora tutto da capire. Il 2024 degli Azzurri è stato in realtà un avvicinamento piuttosto strano all’appuntamento clou dell’estate, con il commissario tecnico che a seguito della qualificazione arrivata dopo il pareggio 0-0 di fine novembre 2023 contro l’Ucraina, ha incominciato a mettere mano, sul serio, nelle viscere della squadra. Ha sperimentato. Ha provato a plasmare la ‘sua’ Italia, dopo quel 4-3-3 su cui anche in virtù dell’eredità lasciata da Mancini la Nazionale aveva giocato l’intero girone di qualificazione a Germania 2024.
I MODULI - Le amichevoli di marzo negli Stati Uniti ad esempio, contro le sudamericane Venezuela ed Ecuador, avevano raccontato di un’Italia che sulla scia dell’impronta evidente lasciata nel nostro Paese da Gian Piero Gasperini e dal suo 3-4-2-1, avevano convinto anche Spalletti ad abbandonare il suo tipico credo per abbracciare la filosofia che in fondo ha portato due club italiani a vincere, seppur con interpretazioni diverse: l’Inter di Inzaghi e, appunto, la Dea del Gasp. Scelta evidentemente figlia di due fattori. Il primo il rodatissimo ‘blocco Inter’ su cui poter fare certo affidamento, se non altro in termini di meccanismi di squadra su cui l'Italia si sarebbe potuta teoricamente appoggiare con cinque undicesimi di titolari (Bastoni, Acerbi, Darmian, Barella e Dimarco); il secondo per via delle caratteristiche dei difensori a disposizione di Luciano Spalletti. Al di là degli interisti già citati, da Scalvini a Mancini arrivando fino al granata Buongiorno o terminando con Calafiori, la scelta di Spalletti – uomo intelligente – parte probabilmente da qui. Anche perché, oltre a questi, la difesa a tre rappresentava di nuovo la soluzione migliore anche per l’integrazione proprio di una figura come Dimarco – altro protagonista assoluto della stagione nerazzurra – e di un attacco che privo di talento puro ormai dall’Europeo di Cassano e Balotelli in Polonia (anno 2012), dovrà fare del lavoro degli esterni e dell’inserimento dei centrocampisti il suo mantra.
LA RIVOLUZIONE - È così che si è arrivati al passaggio ‘a tre’, in una rivoluzione filosofica che con sé però porta tante incognite. La prima è che l’Italia ha giocato pochissimo applicando questa interpretazione. Le due partite 'americane' appena citate e l’ultima amichevole disputata con la Bosnia a Empoli. Tre uscite, intervallate dal passaggio iper-sperimentale del 4-2-3-1 visto con la Turchia il 4 giugno al Dall’Ara. Ed è proprio quella partita, giocata contro l’avversario teoricamente più insidioso degli Azzurri in tutto il 2024, che ha fatto sorgere i dubbi. Perché Spalletti non ha utilizzato la linea a 3 anche con Montella in ciò che doveva essere teoricamente il match più indicativo e con gli avversari più competitivi prima di Dortmund contro l’Albania? E’ stato un semplice ‘giro di campo’ per alcuni, o effettivamente al ct restano dei dubbi sul cosa fare e sul come schierarsi a pochi giorni dal via della rassegna continentale?
GLI STOP - Dubbi per carità che potrebbero essere anche legittimi a fronte della pura cronaca dei fatti che da un paio di mesi a questa parte si sta abbattendo su Coverciano. Spalletti infatti ha prima perso ‘gli inglesi’ Udogie e Zaniolo; poi gli è saltato il ‘blocco difensivo Inter’ con Acerbi - e a tutt’oggi a proposito di interisti ha anche l’incognita Barella. A questi si aggiunga lo sfortunatissimo infortunio di Scalvini nell’inutile recupero di campionato – altra pedina importante e duttile in ottica di una linea difensiva a tre interpreti – e si arriva così alla formazione con cui gli Azzurri si sono presentati nell’ultima uscita ufficiale: Donnarumma; Darmian, Buongiorno, Calafiori; Bellanova, Fagioli, Jorginho, Cambiaso; Chiesa, Frattesi; Scamacca. Siamo questi? Saremo questi ma con Bastoni al posto di Calafiori e Barella al posto di Fagioli quando il sardo tornerà a disposizione? E davanti? Il buon stato di forma di Frattesi fa perdere il posto a Pellegrini? Oppure sarà controrivoluzione e vedremo un ulteriore adattamento di quanto successo a Bologna, quando contro la Turchia siamo scesi in campo così - Vicario; Di Lorenzo, Mancini, Bastoni, Dimarco; Cristante, Jorginho; Orsolini, Pellegrini, Chiesa; Retegui?
COSA MANCA - Chi lo sa. Quel che è evidente però a questo punto è che l’Italia di Spalletti si presenta in Germania senza un'identità ben definita. E attenzione: perché questo è un gioco pericoloso con cui cimentarsi! Sì perché questa selezione pare non avere la base di talento per poter saltare da un’interpretazione all’altra garantendo in ogni caso il risultato. Manca il genio in regia. Manca il fuoriclasse là davanti. Sulla voce ‘bomber’ nemmeno ci addentriamo. E più in generale a parecchi interpreti manca anche un po’ di esperienza internazionale di spessore. Poi, da questo punto di vista, la storia recente ci viene anche in aiuto. Le ultime due migliori competizioni degli Azzurri – Euro 2016 ed Euro 2020 (giocato nel ’21) – ci hanno raccontato di due gruppi con limiti di talento forse ancor più evidenti dell’Italia attuale, ma che con idee chiare e gruppo unito avevano sopperito a ogni possibile difficoltà.
L’Italia dei ‘soldatini’ di Conte e del suo granitico 3-5-2 si presentò con questa formazione, dal centrocampo in su, per sfidare i Campioni del Mondo della Germania ai quarti di finale dell’europeo francese: (Buffon; Barzagli, Bonucci, Chiellini); Florenzi, Sturaro, Parolo, Giaccherini, De Sciglio; Eder, Pellé. Arrivarono a un tiro dal dischetto dal far fuori i tedeschi, interpretando un calcio che telecomandato dal ct in panchina aveva visto gli Azzurri esprimersi con gli stessi automatismi di un club: concetto quasi utopistico per una selezione che insieme gioca 10 volte all'anno. Quell’Italia povera di fenomeni ma di enorme cuore invece si rivelò super competitiva.
E in egual modo, ancora meglio poi se la valutazione è il risultato finale, l’Italia ha fatto tre anni fa, sfruttando il 4-3-3 di Mancini e degli scatenati Chiesa e Insigne, praticamente sempre decisivi dalla fase a scontro diretto. Anche in quel caso c’era un impianto di gioco rodato e idee tattiche chiare sul come stare in campo. Il resto lo fece ‘il gruppo’. E chi ha guardato lo speciale messo in onda dalla Rai con il dietro le quinte di quella spedizione sa di cosa stiamo parlando.
ANSIA E FIDUCIA - Insomma, nascono sostanzialmente da qui gli interrogativi, così come la dietrologia su spedizioni del passato che, per gli Azzurri, ogni qualvolta ci fosse di mezzo un ‘ballottaggio’, un ‘dualismo’ o più semplicemente idee poco chiare alla viglia, beh non hanno detto un granché bene. Ecco perché questo “Che Italia siamo?” della viglia un po’ di ansia ce la mette. L’importante però, alla fine, è che sotto controllo in questo Paese da 30 milioni di commissari tecnici le idee chiare ce l’abbia solo una persona: Luciano Spalletti. La sua storia, ancor di più quella recente, dice che dobbiamo fidarci. L’appuntamento è sabato, ore 21:00, a Dortmund. Con l’Albania inizieremo a capire chi siamo davvero.