Sir Alex Ferguson: 'Napoli, stupiscimi!
Il rubicondo baronetto Ferguson è un caso unico, inimitabile, e un esempio per chiunque. Non solo per chi vive di calcio. Guida il Manchester United dal 1986. Arriva e al primo «training» mette a regime l'icona Bryan Robson, uno che secondo i suoi gusti (da intenditore in materia) beveva troppo per essere un atleta. Al tempo i «Red Devils» erano una squadra in affanno. Un quarto di secolo dopo la bacheca si è arricchita di 37 trofei tra cui 12 Premiership, 5 Fa Cup, 2 Champions League e 2 coppe intercontinentali. E sotto la sua guida il Man-U è diventato uno dei club più ricchi del pianeta: uno spazio sulla maglia d'allenamento vale circa 50 milioni di euro l'anno. Ieri Ferguson ha tenuto una lezione alla Luiss di Roma, organizzata dal movimento per l'etica e la cultura dello Sport. Il manager scozzese ha dimostrato, con riflessiva loquacità, un'infinita conoscenza del calcio moderno e le sue dinamiche. E mai, neanche per sbaglio, ha nominato l'altro team di Manchester, i suoi proprietari, e il suo allenatore. Ma ha invece parlato del suo primo avversario in Champions: il Napoli di Mazzarri.
Sir Alex, come vede le italiane in Champions e soprattutto il Napoli che vi ritorna dopo ventuno anni?
«Il Napoli m'incuriosisce perché è in un girone molto difficile: affronterà squadre di alto livello».
Ricorda la squadra di Maradona?
«Non lo ricordo bene, quel Napoli. Sicuramente era forte. La squadra gioca in una piazza calda e passionale. L'anno scorso il gruppo è cresciuto molto».
Conosce alcuni azzurri? Lavezzi, Hamsik, Cavani, sono campioni avvicinati anche al suo club.
«Il Napoli ha ottimi giocatori e, se continueranno di questo passo, possono sicuramente far bene. Il Milan ha più esperienza di una squadra come il Napoli ma dovrà vedersela subito con il Barcellona, la squadra più forte del mondo».
Perché il calcio italiano è in crisi?
«C'è pochissima pazienza nei confronti di tutti. Un Ferguson da voi non potrebbe esistere, se non altro perché dividete le figure di allenatore e manager. Io faccio entrambe le cose, ma adesso delego di più. E non tratto mai con i procuratori, mi fanno diventare pazzo».
Un consiglio?
«In Italia si pensa subito al risultato, alla prima squadra, mai o poco al vivaio. Io punto molto sui giovani, mi premuro anche del loro studio. Poi, Juve a parte, qui non ci sono stadi di proprietà dei club».
Ci sono allenatori italiani che hanno fatto bene in Inghilterra.
«Certo. Ranieri, Ancelotti, Capello e Zola in Premier hanno fatto tutti un «great job». E comunque nel calcio esistono cicli. Voi avete dominato tra gli anni ’90 e 2000. Allora avevate quei campioni che adesso, anche grazie agli stadi e ai diritti tv, vanno in Spagna e Inghilterra dove ci sono più soldi».
In quei Paesi vengono spese cifre enormi sul mercato.
«Sì e tutti i club sono insolventi. Sinceramente, in tempi di crisi, trovo assurdo che qualcuno sborsi 80 milioni a stagione. Ma in Russia e Medio Oriente c'è chi ha disponibilità infinite. Mi auguro che Platini, vero uomo di calcio, sappia applicare il fair play finanziario, che è anche un fatto etico».
Come ha fatto a rinnovarsi e rinnovare la squadra per così tanti anni restando ai vertici?
«Nel Man-U la persona più importante è il manager. Tutti i giocatori, non importa quanto forti, devono lavorare per la squadra. Io parlo, aiuto, ascolto e promuovo un'etica del lavoro. Si mangia, se possibile, tutti insieme, addetti alle pulizie compresi. Creo fiducia, complicità, uguaglianza. Estraggo il talento. È quello di cui avrebbe bisogno Balotelli»