AFP/Getty Images
Shevchenko: 'Italia, insieme in Russia. Garanzia Inter, il mercato del Milan...'
Andriy Shevchenko, oggi c.t. dell’Ucraina, il rischio di un playoff con l’Italia è serio.
«Speriamo di no, e non è solo una questione tecnica».
Cioè?
«Amo l’Italia, mi sento italiano. È da quando sono bimbo che ho il vostro Paese nel cuore».
Racconti.
«Venni undicenne per un torneo giovanile, giocammo ad Agropoli e rimasi incantato dalla gente, dal modo di vivere, da tutto. Rientrai a casa con la convinzione che un giorno avrei vissuto a lungo in Italia».
Insomma, Italia da evitare anche per una questione di cuore?
«Proprio così e non sono sentimenti di circostanza».
Non è quindi casuale che il suo staff, a partire dal vice Tassotti, sia molto italiano?
«L’Italia è l’università del calcio dal punto di vista tattico. La serie A propone novità ogni anno, e io attingo moltissimo. Mauro per me è poi sempre stato un punto di riferimento in ogni senso, anche umanamente. Ci capiamo con uno sguardo».
Torniamo alle sue qualificazioni mondiali: per evitare l’Italia basta vincere il girone, e quindi bisogna fare bottino pieno contro Kosovo e Croazia.
«Sarebbe perfetto se andassimo insieme in Russia, ma il cammino è ancora lungo per noi. La Croazia ha individualità eccezionali, e penso soprattutto a Modric, oltre ai vari Perisic, Mandzukic e Brozovic».
In pratica vi giocherete tutto proprio con Modric e compagni.
«Calma, nella mia testa per ora c’è solo il Kosovo».
Ha un solo punto in classifica...
«Se non si vince in Kosovo, e parecchio bene, di fatto non c’è un domani...».
Che percentuale di qualificazione dà ai suoi ragazzi?
«Abbiamo concrete speranze, siamo in costante crescita e sapremo giocarci le carte giuste».
Un bel salto di qualità rispetto all’ultimo Europeo.
«Sì, considero positivo questo percorso, a prescindere da come andrà poi il discorso qualificazione. Abbiamo preso la squadra dopo un Europeo disastroso: zero punti, zero gol fatti e giocatori moralmente a pezzi. Siamo ripartiti da una situazione difficile, senza contare i tanti problemi extracalcistici».
E dopo oltre un anno di lavoro qual è il bilancio?
«Lavoriamo con metodologie moderne, abbiamo avuto il massimo appoggio dalla federazione e dai ragazzi. In campo siamo già una squadra vera, con idee chiare e il bene comune davanti a qualsiasi individualismo. Oggi invece siamo in grado di giocarcela con chiunque».
Yarmolenko e Konopljanka le stelle?
«Hanno qualità ed esperienza, ma le mie squadre non dipenderanno mai dai singoli. Non si va lontano così, l’ho imparato in Italia. O hai Messi oppure devi prima di tutto essere solido, organizzato e con un’identità ben precisa. Stiamo gettando basi importanti, il lavoro va completato e mi piace questa esperienza».
A chi si ispira Sheva allenatore?
«A tutti e a nessuno in particolare. Voglio essere Shevchenko e basta, vorrei essere riconosciuto per la serietà del mio lavoro. Amo comunque osservare e raccogliere le cose migliori di chi ha più esperienza di me. Lobanovski era per esempio la scienza applicata al calcio quando nessuno nemmeno immaginava certe metodologie. Ancelotti è perfetto nei rapporti umani, Capello è per me la stabilità a 360 gradi, mentre Mourinho è il manager per eccellenza. Ho imparato anche da Zaccheroni, che aveva idee nuove, diverse, e da esterno ho apprezzato parecchio Lippi, unico nel creare un gruppo organizzato, compatto e affamato».
Prende la rincorsa da c.t. per poi iniziare con i club? C’è la serie A nei suoi piani?
«Sono orgoglioso di aver scritto pagine storiche del calcio italiano da giocatore, e un domani vorrei fare altrettanto da allenatore, questo è certo».
Il nostro calcio sembra intanto in difficoltà, ed è forte il timore di non arrivare in Russia.
«Un Mondiale senza l’Italia perderebbe sapore, io sono convinto che ce la farete. E comunque in generale non vedo più una crisi italiana. Secondo me il vostro calcio è tornato a crescere negli ultimi anni, merito di un’eccezionale scuola di allenatori. Avete sempre talenti di livello, ma soprattutto producete idee nuove, tecnici con caratteristiche differenti fra loro ma comunque rivoluzionari: penso a Conte, Allegri e Sarri. Quest’ultimo è una specie di Sacchi 2.0: il Napoli è davvero una piccola rivoluzione a livello mondiale. Non è un caso che l’Italia abbia vinto in ogni occasione al di là dei singoli, è sempre arrivata come collettivo, organizzazione, filosofia e strategia. Quest’anno in corsa per il titolo di miglior tecnico Fifa c’erano Conte, Allegri e Zidane: due italiani e uno che come calciatore è diventato grande in serie A. Vi garantisco che tutti eviterebbero volentieri l’Italia durante un Mondiale o un Europeo: puoi anche batterla, ma ne esci a pezzi mentalmente. Avete visto che fatica ha fatto la Germania all’ultimo Europeo contro Conte e i suoi ragazzi? E i valori puramente tecnici erano sbilanciati in favore dei tedeschi».
Tuffiamoci in questo campionato: chi vince?
«La Juve è la più forte per struttura societaria, rosa ed esperienza. Subito dietro vedo il Napoli, che non smette di crescere».
L’Inter?
«Ha Spalletti, tecnico preparatissimo, meticoloso, non molla mai e ci mette il cuore nel suo lavoro. Sì, Spalletti è una garanzia per l’Inter, e i nerazzurri saranno lì fino in fondo».
Le difficoltà del Milan stanno dando ragione a lei e ad altri grandi ex che erano perplessi fin da inizio campionato.
«Vorrei chiarire. Ho semplicemente detto cosa avrei fatto personalmente in fase di mercato, ovvero inserire al massimo 3-4 titolari nuovi, di grande valore. Sono già tanti per come la penso io. La strada scelta dalla nuova dirigenza è legittima, ma secondo me presuppone un programma a lunga scadenza, e quindi serve pazienza da parte di tutti: si riparte da zero, per ora è stato comprato il futuro, i fuoriclasse veri arriveranno invece probabilmente fra uno-due anni se il Milan avrà nel frattempo riguadagnato il posto che merita nel calcio che conta. E’ giusto alzare al massimo l’asticella anche nelle dichiarazioni, il Milan deve porsi sempre l’obiettivo massimo, poi però c’è la realtà del campo e cambiare 10-15 giocatori in un colpo solo non è uno scherzo, occorre tempo per trovare gli equilibri».
Come finisce il derby?
«Non so, ma di sicuro è già di fatto un primo dentro o fuori per il Milan».
Il derby del suo cuore?
«Il ritorno della semifinale di Champions nel 2003. In città c’era una tensione pazzesca, ma io avevo una grande qualità: quando entravo in campo intorno a me facevo mentalmente il vuoto, sparivano pubblico, bandiere e cori; avevo solo campo e avversari in testa e negli occhi».
Il simbolo dei suoi derby?
«Zanetti, l’avversario più duro, e poi Paolo Maldini che ancora oggi è il mio Capitano».