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Sheva significa Milan: l'unico degno di avvicinarsi a Van Basten
Sheva significa Milan e quello - che ha scavallato il Novecento ed è entrato di corsa nel Duemila - era il Milan di Sheva. Legame forte, indissolubile, resistente a tutto. Liquidiamo subito la contabilità dei trofei vinti per dire che nel Milan di Ancelotti l'Usignolo di Kiev vince uno scudetto, entra nella leggenda con la Champions tutta italiana e la finale di Manchester decisa da un suo rigore e trionfa al Pallone d'Oro: succede tutto tra il settembre del 2003 e il dicembre del 2004, nel suo periodo più sfolgorante.
Nella memoria dei milanisti dai cinquant’anni in giù, Sheva è l'unico degno di misurarsi nello stesso territorio di Van Basten. Arriva al Milan nel 1999, a soli 22 anni, dopo essersi fatto conoscere in campo internazionale con la maglia della Dinamo Kiev, cresciuto e modellato sotto l'ala protettrice di quello che è stato il maestro di un'intera generazione, il Colonnello Valeri Lobanovsky. Sheva cresce seguendo il rigore e il sacrificio, è un soldato, anche se dall'aspetto e dai modi gentili. Se ne va dopo sette campionati in rossonero e 127 gol nelle competizioni ufficiali: sei stagioni su sette in doppia cifra, ad eccezione della più tormentata (2002-03, solo 5 gol in campionato) e con la stella al merito del titolo di capocannoniere vinto due volte, nel 2000 e nel 2004, sempre con 24 gol. Andriy lascia Milano convinto dalla moglie Kristen, che vuole che i suoi bambini imparino l’inglese: questa la versione ufficiale data in pasto alle belle gioie, in realtà costretto dalla sua amicizia con Roman Paperon de Paperoni Abramovich, patron del Chelsea (dove troverà Mourinho: convivenza assai difficile).
Molte le perle lasciate in omaggio al popolo rossonero. Il destro a giro che fa impazzire San Siro contro la Juventus (2001) da trenta metri, in posizione defilata, con il pallone che inganna Buffon e finisce all'incrocio dei pali. O il gol col Porto nella Supercoppa Europea (2003), di testa, intervenendo in mezzo all'area e infilandosi tra due difensori. Ma più di altro restano i suoi 14 gol (record) nel derby della Madonnina. Implacabile Sheva, quando vedeva le maglie nerazzurre. Un pistolero infallibile, un predatore sempre in agguato. Aiutato da un fisico longilineo (183 centimetri per 73 chili) senza essere fuori norma, armonioso in ogni movimento, straordinario nel cogliere il tempo del compagno che detta il lancio, feroce nel difendere il pallone e preciso come pochi altri quando si tratta di sferrare il tiro, spesso in diagonale, da destra verso sinistra: nei primi anni del 2000 Sheva è stato uno dei due-tre attaccanti migliori al mondo. Zvone Boban ha raccontato che quando lo vide giocare per la prima volta ne rimase impressionato.
Era imprendibile, nessuno come Sheva riusciva a riassumere nella propria corsa velocità e potenza nelle gambe, più rapidità del pensiero. Sette anni al Milan, più un ritorno nel 2008, dopo le due controverse stagioni al Chelsea: un ritorno senza gloria, ma non importa, come ha detto più volte lui stesso «avevo bisogno di ritrovare la mia anima». Il Milan, sì.
Ora che è diventato allenatore del Genoa - dopo aver guidato la nazionale dell'Ucraina per un quinquennio (2016-2021), Andriy Shevchenko è pronto a togliersi molte soddisfazioni. Replicare il suo favoloso percorso da calciatore sarà quasi impossibile, ma questo vecchio ragazzo di quarantacinque anni dietro l’apparenza così raffinata nasconde una forza di volontà che non ha eguali. Per questo motivo si è messo in gioco, per questo motivo affronta ogni cosa come quella sera all'Old Trafford, davanti al rigore che gli avrebbe cambiato la vita e l'avrebbe consegnato alla Storia del calcio. Un’occhiata all’arbitro, una al portiere avversario, una al pallone. Sta nascendo l'architettura di un capolavoro. Una rincorsa breve ma decisa, un tocco definitivo.
Nella memoria dei milanisti dai cinquant’anni in giù, Sheva è l'unico degno di misurarsi nello stesso territorio di Van Basten. Arriva al Milan nel 1999, a soli 22 anni, dopo essersi fatto conoscere in campo internazionale con la maglia della Dinamo Kiev, cresciuto e modellato sotto l'ala protettrice di quello che è stato il maestro di un'intera generazione, il Colonnello Valeri Lobanovsky. Sheva cresce seguendo il rigore e il sacrificio, è un soldato, anche se dall'aspetto e dai modi gentili. Se ne va dopo sette campionati in rossonero e 127 gol nelle competizioni ufficiali: sei stagioni su sette in doppia cifra, ad eccezione della più tormentata (2002-03, solo 5 gol in campionato) e con la stella al merito del titolo di capocannoniere vinto due volte, nel 2000 e nel 2004, sempre con 24 gol. Andriy lascia Milano convinto dalla moglie Kristen, che vuole che i suoi bambini imparino l’inglese: questa la versione ufficiale data in pasto alle belle gioie, in realtà costretto dalla sua amicizia con Roman Paperon de Paperoni Abramovich, patron del Chelsea (dove troverà Mourinho: convivenza assai difficile).
Molte le perle lasciate in omaggio al popolo rossonero. Il destro a giro che fa impazzire San Siro contro la Juventus (2001) da trenta metri, in posizione defilata, con il pallone che inganna Buffon e finisce all'incrocio dei pali. O il gol col Porto nella Supercoppa Europea (2003), di testa, intervenendo in mezzo all'area e infilandosi tra due difensori. Ma più di altro restano i suoi 14 gol (record) nel derby della Madonnina. Implacabile Sheva, quando vedeva le maglie nerazzurre. Un pistolero infallibile, un predatore sempre in agguato. Aiutato da un fisico longilineo (183 centimetri per 73 chili) senza essere fuori norma, armonioso in ogni movimento, straordinario nel cogliere il tempo del compagno che detta il lancio, feroce nel difendere il pallone e preciso come pochi altri quando si tratta di sferrare il tiro, spesso in diagonale, da destra verso sinistra: nei primi anni del 2000 Sheva è stato uno dei due-tre attaccanti migliori al mondo. Zvone Boban ha raccontato che quando lo vide giocare per la prima volta ne rimase impressionato.
Era imprendibile, nessuno come Sheva riusciva a riassumere nella propria corsa velocità e potenza nelle gambe, più rapidità del pensiero. Sette anni al Milan, più un ritorno nel 2008, dopo le due controverse stagioni al Chelsea: un ritorno senza gloria, ma non importa, come ha detto più volte lui stesso «avevo bisogno di ritrovare la mia anima». Il Milan, sì.
Ora che è diventato allenatore del Genoa - dopo aver guidato la nazionale dell'Ucraina per un quinquennio (2016-2021), Andriy Shevchenko è pronto a togliersi molte soddisfazioni. Replicare il suo favoloso percorso da calciatore sarà quasi impossibile, ma questo vecchio ragazzo di quarantacinque anni dietro l’apparenza così raffinata nasconde una forza di volontà che non ha eguali. Per questo motivo si è messo in gioco, per questo motivo affronta ogni cosa come quella sera all'Old Trafford, davanti al rigore che gli avrebbe cambiato la vita e l'avrebbe consegnato alla Storia del calcio. Un’occhiata all’arbitro, una al portiere avversario, una al pallone. Sta nascendo l'architettura di un capolavoro. Una rincorsa breve ma decisa, un tocco definitivo.