Sheva, Kakà, Thiago Silva: le finte bandiere che straparlano. Ibra il modello
Altra estate calda per il mercato, altri rumors, altri corteggiamenti, altri trasferimenti. E come spesso è accaduto negli ultimi anni, il Milan è ancora al centro dell'attenzione. Per il mercato in entrata, ma anche per quello in uscita, con i grandi club, soprattutto spagnoli, pronti a fare follie per i gioielli rossoneri. E' stato così per Shevchenko, per Kakà, ora per Thiago Silva. L'Italia è terra di conquista, complice l'arcicitata fiscalità che ci penalizza e l'incapacità del calcio italiano di trovare una soluzione alla legge sugli stadi, e in caso di grande offerta, "irrinunciabile" come si dice in questi casi, anche le big sono pronte a cedere i giocatori migliori. Cambiare squadra fa parte della legge del calcio, che oltre ad aspetti puramente economici, si basa su motivazioni che vengono a mancare, voglia di cambiare, scelte familiari. Per questo motivo le cosiddette bandiere si contano sulle dita di una mano.
In questo scenario, sono fuori luogo dichiarazioni di Thiago Silva. Non tanto quelle legate al fascino per il Barcellona, che nel calcio ci possono stare, ma quelle sulla speranza di vedere la maglia numero 33 ritirata come la 6 di Baresi e la 3 di Maldini. In antitesi proprio con le parole pro Barcellona e sul fatto che ora le due società si devono parlare. Diventare una bandiera è una scelta di vita, che matura nel corso degli anni. Promettere qualcosa che non si può mantenere, per diversi motivi, è una mancanza di stile e di rispetto verso i tifosi e la storia del club. Lo avevano fatto Shevchenko e Kakà, lo sta facendo Thiago Silva. Forse è meglio l'atteggiamento di Ibrahimovic, che non parla di fascia di capitano o di ritiro di una maglia.