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    Scusa Luciano, che ci fai a Firenze?

    Scusa Luciano, che ci fai a Firenze?

    • Marco Bernardini
    E’ di ghiaccio il sole nel cielo sopra Firenze. Illumina i tetti della città sui quali il cantautore e poeta De Gregori vedeva volare Caterina, ma non riscalda.  Sembra voler scappare con passo lesto la poca gente sul Lungarno, guance rosse e capelli imprestati ai capricci del vento. E’ quasi ora di colazione. Pilotato da Carlo e Cosimo, pregusto con il sapore di un piatto speciale che troverò in un’osteria anche lei talmente particolare che andrebbe iscritta al WWF, insieme con i panda, per venirne protetta. Due uova cotte sul carbone e poi arricchite con un trionfo di carciofi saltati al burro. Sembra la corona della regina Elisabetta tanto è suggestiva quella portata “finto-povera”, mi anticipano i due compagni. Non vedo l’ora.

    Con l’età la vista è fatalmente in calo. Non sono un’aquila, insomma. Ma l’uomo che s’avanza da lontano ha un viso famigliare. Compare sullo sfondo di Ponte Vecchio dove, per quel poco che fu presidente della Fiorentina e prima di immolarsi alla sua passione del volo, abitava Pier Cesare Baretti. Penso che mi manca molto, l’amico andato. Manca anche a Carlo, per il quale fu maestro di giornalismo. Inevitabili e un poco dolenti scampoli di “dejà vu” che si presentano puntuali ogni volta che mi  capita di tornare nella città di Dante. Intanto l’uomo che avevo notato prima controluce è a pochi passi, ormai. Scusate, ma quello non è Moggi? Chiedo ai miei due compagni di passeggiata. Domanda retorica perché anche lui mi ha riconosciuto.  Mi anticipa, sorridendo? “Ciao, vecchio, come stai? E che ci fai qui?”. Romba come quello di una Ferrari il motore della macchina del tempo. Il passato è adesso, di nuovo

    Esistono persone che, nel bene come nel male, hanno segnato ciascuna esistenza sia per ragioni affettive piuttosto che per situazioni puramente professionali. Luciano Moggi, per quel che mi riguarda, è uno di questi. Con una differenza. Ha, per più di trent’anni, fatto da accompagnatore lungo il cammino del lavoro e anche su quello dell’amicizia. Non ho alcuna difficoltà ad ammetterlo e non provo alcun tipo di  imbarazzo nel dire che “in caso di bisogno” c’era sempre una telefonata per  “zio Lucianone” sapendo che lui si sarebbe fatto in quattro. Non lo incontravo più e avevo smesso di cercarlo dopo il “crollo dell’impero juventino” travolto dalla valanga di Calciopoli ovvero quel ”noir” del calcio scritto anche da Moggi su ispirazione di Antonio Giraudo. Rido mentre gli dico: ”Allora che cosa ne hai fatto dei soldi avuti dal mio giornale dopo aver vinto la causa contro di me e Padovan per diffamazione? Non erano tanti, ma un bel week end almeno…”. Lui non ride. Parla sottovoce “Guarda che io, alla fine, ho ritirato la querela. Se poi quello là è andato avanti non so”. Mi sento un po’ verme. Mica per niente, ma potevo tranquillamene evitare quella uscita servita soltanto a rimuovere il fango depositato sul fondo di una orribile storia il cui prezzo l’uomo che fu il più potente “burattinaio” del calcio ha pagato che basta.

    Moggi, oggi, è un uomo illustrato. Il volto  segnato da mille rughe, come quelle dell’Avvocato, la camicia senza cravatta aperta sul collo come quasi mai si lasciava vedere, la barba di due giorni, lievemente ingobbito e dal passo stanco. Mi dicono, da Londra dove vive, che Antonio Giraudo sia invece bello e fresco come un fiore. Buon per lui e complimenti. Ma non è giusto che, per  quel che accadde, sia stato soltanto il “braccio” a pagare mentre la “mente” ha il sederino candido come quello di un bebè.

    E tu Luciano, che combini di bello? E lo prendo confidenzialmente sottobraccio, come una volta. “Pendolo tra Napoli e Torino. Ti ho rubato il mestiere e scrivo. Viaggio non più per lavoro ma per interesse e svago. Come oggi qui a Firenze, tra un museo e una chiesa”. Tutto questo in tempo di mercato, pensate un po’ che roba! Giorni che per il Luciano “parte prima” sarebbero stati a dir poco bollenti oltreché assai fruttuosi. Per lui e i presidenti per i quali lavorava. Lo sono per altri. Per quelli che da Moggi hanno imparato il mestiere esattamente come lui lo aveva appreso da Italo Allodi.  Anche se poi, a ben vedere, gli allievi di oggi non  potranno mai superare il maestro di ieri. L’uomo che, prima di perdere la trebisonda e sentirsi inattaccabile tanto da combinare un disastro biblico, era riuscito a collezionare una serie di incredibili e inarrivabili capolavori: Paolo Rossi, Claudio Gentile, Gaetano Scirea. I primi tre che mi vengono in mente e che fanno parte di un’intera enciclopedia di campioni tutti scovati da Moggi. Ora, vederlo così indifeso ma ripulito dentro dalla consapevolezza propria delle persone intelligenti, fa persino tenerezza. “Ci vediamo, ne!”. L’abbraccio è sincero, per entrambi. Ma che freddo fa oggi sul Lungarno!

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