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    Sampdoria, 30 anni fa lo scudetto di Mantovani, Boskov, Vialli e Mancini: una favola oggi irripetibile

    Sampdoria, 30 anni fa lo scudetto di Mantovani, Boskov, Vialli e Mancini: una favola oggi irripetibile

    • Renzo Parodi
    Gli antichi Greci in letteratura lo definivano “adunaton”. L’impossibile. Nel calcio l’impossibile è possibile. Qualche volta. Accadde nell’anno di grazia 1991, quando la televisione era uno schermo alimentato da un tubo catodico, nessuno parlava di  abbonamenti a pagamento alle dirette delle partite e sulle pelouse fresche di Italia 90 - il Mondiale vinto dalla Germania di Beckenbauer e Voeller,  Brehme e Matthaeus -  i calciatori non erano ologrammi, figurine virtuali, supereroi irraggiungibili,  ma ragazzi in carne ed ossa; e i tifosi contavano qualcosa, anzi molto, perché erano i “padroni” morali del pallone e nessuno si sarebbe permesso di trattarli alla stregua di clienti; o di oltraggiarne lo spirito sfregiando le maglie di gioco trasformate in abiti di Arlecchino. 
     
     


    L’impossiblle o, se più di piace, corrivamente, il “miracolo”, quell’anno lo realizzò la Sampdoria e fu l’ultimo sgarro alla legge non scritta ma scolpita nella pietra della Storia che assegna il titolo di campione d’Italia ad una squadra metropolitana: la Juventus, le milanesi o le romane. Fiorentina, Cagliari, Verona e, appunto, la Sampdoria? Simpatiche intruse ammesse, episodicamente, alla augusta presenza dell’aristocrazia del pallone. E’ capitato, non capiterà, credo, mai più. E’ dunque doveroso ripercorrere la cavalcata di quella squadra sbarazzina, costruita con amore paterno e inflessibile rispetto delle regole da un uomo che nella Genova impigrita e sazia, con lo sguardo rivolto al passato, si fregiò del titolo di campione d’Italia. Uno “splendido errore”, Paolo Mantovani. Un romano atipico, cultore della parola data, un sacerdote dell’etica calvinista (lavoro e ancora lavoro); ma anche un giocatore nel senso più ampio della parola, uno che sfidava la vita al tavolo da poker o alla roulette. E perché no?, anche sulla giostra del calcio.

    Poco più che ventenne quel figlio della buona borghesia nato nel ’30 nel quartiere Prati, salì al Nord e si infilò nei “caruggi”, i vicoli segreti della Superba (fu Petrarca a ribattezzarla così), e vi si trovò subito a casa, talmente felice della scelta fatta da diventare più genovese dei genovesi. Con i soci Mondini e Noli nella Pontoil, Mantovani fece fortuna col petrolio muovendosi abilmente fra noli di navi, porti di scarico e contratti miliardari: memorabile quello col Kuwait, siglato a metà dei Settanta nel pieno dell’impervia crisi mondiale dell’oro nero. In gioventù a Roma tifoso della Lazio di Silvio Piola, Mantovani a Genova si era innamorato della Sampdoria. Piccolo club, senza blasone né trofei in bacheca, ma guidato fin dalla fondazione nel ’46 da presidenti-signori (spesso “poveri” e talvolta ricchi, come l’armatore Alberto Ravano). Un club appoggiato da una tifoseria appassionata, nonostante la squadra fosse scivolata in permanenza nella palude della lotta per la salvezza. Quella creatura fragile, senza Santi in paradiso, straniera in patria, schiacciata dal peso ingombrante delle glorie vetuste del Genoa, finì per fargli tenerezza e se ne innamorò. E infine Mantovani finì per comprarsela, nell’estate del ’79, sebbene la Sampdoria fosse precipitata in serie B. In tre anni la riportò all’onore del mondo, in cinque la Sampdoria vinse il suo primo trofeo, la Coppa Italia, trascinata al successo da una coppia di attaccanti-ragazzini, impertinenti e goliardici, destinati a diventare i Gemelli del gol: Roberto Mancini e Gianluca Vialli. Strappati entrambi a colpi di milioni alla Juventus di Boniperti. Da quella coppa vinta nell’85 allo scudetto del 1991 intercorrono appena sei stagioni, nelle quali la Sampdoria collezionò altre due vittorie in coppa Italia e una coppa delle coppe nel ’90, che la ripagò dell’amarezza della finale dell’anno precedente, perduta a Berna contro il Barcellona. Dopo il tricolore, un altro successo, una Supercoppa di Lega vinta sulla Roma e, purtroppo, la cocente delusione di Wembley, la coppa dei Campioni perduta in finale ai supplementari dal Barcellona di Cruijff e Koeman. Un palmares di grande prestigio, assolutamente impensabile un decennio prima. “Se c’è una cosa di cui non mi sono mai pentito – era uno dei mantra di Mantovani – è di essere diventato presidente della Sampdoria”. Quando gli chiedevano, con scoperta malizia, perché proprio la Sampdoria, rispondeva: “Nessuno mi chiede perché fra tante donne che ho avvicinato ho scelto proprio mia moglie”. Una replica degna di un epigramma. 

    Sampdoria, 30 anni fa lo scudetto di Mantovani, Boskov, Vialli e Mancini: una favola oggi irripetibile

    Lo scudetto del ‘90/’91 fu l’acme di un cammino costruito mattone su mattone, con perizia, amore e passione. Uno staff ridotto all’osso. Il presidente in plancia ai comandi, il ds Paolo Borea a fare da catena di trasmissione e paracadute fra società e squadra; al timone della squadra un saggio nostromo, Vujadin Boskov, navigatore di mille mari, finissimo psicologo, grande gestore del gruppo, allenatore di teste prima che di muscoli, sagace e spiritoso, battutista favoloso, le sue fulminanti verità corrono tuttora sulla bocca di giornalisti e tifosi. Una per tutte: “Rigore è quando arbitro fischia”. E anche, maliziosamente: “Calcio senza tifosi è come donna senza tette”. In campo, loro: i ragazzi col blucerchiato nel cuore. Giovani, ambiziosi, amici per la pelle in campo e fuori dal campo. Una piccola grande massoneria di famiglia cresciuta all’ombra del Lider Massimo, cementata dalle vittorie e dai patti di sangue: “Nessuno se ne va prima di aver vinto qualcosa di importante” e quel qualcosa non detto era lo scudetto. Vialli, Vierchowod, Mancini, Pagliuca, furono per anni gli oggetti del desiderio delle Grandi in servizio permanente effettivo. Rifiutarono ogni offerta, anche più lucrosa. “Non mi privi del piacere di veder giocare Mancini”, rispose Mantovani a Gianni Agnelli. E l’Avvocato ripiegò, si fa per dire, su un altro prestigioso Roberto: Baggio.

     Vialli disse “no grazie al Milan di Berlusconi”. Vierchowod e Mancini alla Juventus. Pagliuca alla Roma. I Grandi Vecchi (Dossena, Cerezo e Vierchowod), guidavano la pattuglia dei giovani, fra scherzi, risate, e battute. Allenarsi a Bogliasco era una piacevole consuetudine, non un obbligo professionale. Le cene fuoriporta un must. La partita a scopone del giovedì al ristorante Edilio a ridosso dello stadio, una gioiosa, scaramantica abitudine. Vi parteciparono in sette e divennero i Sette Nani, Mancini era Cucciolo, Vialli era Pisolo, Mannini Eolo e il padrone di Casa, Edilio Buscaglia, naturalmente era Biancaneve. Una sera si presentò Mantovani e chiese il permesso di sedersi al tavolo e di giocare con i nani. Li sbaragliò tutti, naturalmente, il presidente possedeva una memoria alla Pico della Mirandola e con le carte era imbattibile. “Uno scudetto non si programma, si lavora al meglio delle capacità e delle risorse e poi se viene viene”, aveva dichiarato. Era una bugia bianca. Mantovani lavorò per cucire il tricolore sulle maglie blucerchiate, lo scudetto era l’obiettivo cruciale della sua vita. Sapeva di non avere davanti molti anni, il cuore faceva i capricci e al suo medico-amico, Alfredo Segre, confidò: “Fammi vivere fino a 60 anni, voglio vincere lo scudetto”. Se ne andò a 63 anni, il 14 ottobre 1993, nel rimpianto dei tifosi della Sampdoria e del mondo del calcio. Ai suoi funerali piansero 40mila persone. 
     
     


    La vittoria tricolore fu veramente un miracolo, un “adunaton” diventato realtà. Conquistata a dispetto di tutti: “I nostri nemici sono oltre Appennino”, aveva preconizzato Mantovani. Si riferiva al Milan e all’Inter, lasciate indietro di sei punti. E soprattutto all’isolamento al quale era condannata la Sampdoria, senza l’appoggio della grande stampa metropolitana e con il malcelato imbarazzo di un establishment cittadino allora largamente genoano. Tant’è che a palazzo Tursi, sede del municipio, si decise di sventrare il vecchio Ferraris per ricostruirlo in vista di Italia ’90, riducendone la capienza ad appena 22mila posti e costringendo la Sampdoria ad emigrare a Cremona per giocare le gare di coppa delle Coppe. Una mazzata da costringere chiunque alla resa. Chiunque tranne Paolo Mantovani.  Che a scudetto vinto si sfogò: “La vittoria è tutta nostra, della Sampdoria e dei suoi tifosi. La città? Non c’entra niente”.

    La grande stampa era preoccupata che quel meteorite fuori controllo mandasse all’aria equilibri consolidati, gerarchie intoccate, privilegi dettati dal tempo. Il linciaggio mediatico orchestrato ai danni di Vialli e Mancini, all’epoca azzurra di Italia ’90, fu il brodo di coltura dello scudetto “impossibile”. Additati al pubblico ludibrio come i principali responsabili del fallimento azzurro – ricordate la semifinale contro l’Argentina? – perfidamente ribattezzati  i “Gemelli del non gol”, Mancini venne relegato in tribuna, Vialli, alle prese con infortuni ed acciacchi, sacrificato sull’altare dell’effimera gloria dello spiritato Totò Schillaci. Roberto e Luca coltivarono in silenzio, nei mesi successivi, la loro famelica ansia di rivincita. E con Pietro Vierchowod, l’altro reietto dal pavido Vicini (Maradona non credeva ai propri occhi quando non vide in maglia azzurra l‘avversario che aveva chiamato l’Uomo Verde), costruirono la rivincita più bella. Servita calda, per una volta, a bruciare la pelle degli avversari. La svolta, la prima, a Napoli, un perentorio 4-1, il 18 novembre 1990. Vantaggio del Napoli, campione d’Italia in carica, con Incocciati, rimonta perentoria della Sampdoria che lascia il San Paolo di stucco. Doppietta di Vialli e fantastico numero acrobatico di Mancini, destro al volo sul lungo spiovente di Lombardo, palla nel sacco dopo aver baciato il palo. Applausi, non si può non togliersi il cappello davanti a tanta bellezza. “Mister, saremo campioni!” urla il Mancini precipitandosi all’abbraccio di Boskov. Profezia azzeccata. La lunga cavalcata si conclude, di fatto, a Milano, il 5 maggio 1991. Partita nervosa, Mancini e Bergomi si accapigliano e l’arbitro D’Elia li spedisce sotto la doccia. Poco prima su segnalazione dell’assistente ha annullato per posizione di fuorigioco il gol del centravanti tedesco dell’Inter, Klinsmann. Pagliuca è un muro, si infrangono sulle sue manone gli assalti disperati della Beneamata dei milanesi, che deve assolutamente vincere per restare in corsa per il titolo. Segna invece la Sampdoria, Vialli approfitta di un errore in disimpegno di Stringara, serve Dossena che fulmina Zenga con un destro rabbioso a filo d’erba. Finita? Macché L’Inter guadagna un calcio di rigore Al dischetto va Matthaeus,  specialista dei tiri dagli 11 metri. Pagliuca, immobile, lo osserva calciare e si distende sulla propria destra, respinge il pallone, il tedesco si avventa e calcia di nuovo ma la sfera impatta sulle gambe del portiere blucerchiato e finisce in corner. Il sigillo lo mette Vialli, fugge in contropiede, scarta Zenga e scarica il pallone nella porta sguarnita e festeggia con una capriola da circo, sotto la curva dove sono stipati migliaia di tifosi della Sampdoria. E’ fatta. Quasi. La celebrazione dello scudetto a Marassi, due settimane dopo: 3-0 al Lecce che scende in serie B. Tutto nella prima mezzora di gioco: gol di Cerezo, Mannini e Vialli e via alla festa. Sugli spalti, perché Mantovani ha ordinato: “Niente fumogeni, niente petardi e soprattutto niente invasione di campo finale”. I tifosi ubbidiscono, ebbri di felicità.  Oltre centomila tifosi sfilano per le strade di Genova, un’epifania blucerchiata che sovverte i crismi dell’ortodossia. Sarà l’ultimo hurrah del pallone come lo abbiamo conosciuto noi vecchi suiveurs. L’era delle pay tv incombe e l’egemonia del calcio tornerà presto a scivolare sulle tavole imbandite dei ricchi.  Al tavolo della Sampdoria potrebbe tornare a sedersi Gianluca Vialli, in veste di presidente. Se Ferrero, come sembra, dovrà arrendersi e cedere il club per salvare le proprie aziende. E’ più di una speranza per i tifosi che tornerebbero a vivere un’epopea consegnata alla Storia. 

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