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Sacchi: 'Il migliore di sempre? Io...'
70 anni di Arrigo Sacchi, l'allenatore del primo grande Milan di Silvio Berlusconi, capace di vincere uno scudetto, una Supercoppa Italiana, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali e due Supercoppe Europee dal 1987 al 1991. Il tecnico di Fusignano, probabilmente l'ultimo vero innovatore del calcio italiano, festeggia il proprio compleanno e la Gazzetta dello Sport lo celebra con un'intervista in 70 domande, passando attraverso i ricordi dei momenti più significativi della carriera.
1) Sacchi, quando entra il calcio nella sua vita?
"Se devo scegliere un momento preciso dico estate 1954. Sono in vacanza con i miei genitori a San Mauro a Mare. Nello stabilimento balneare c’è un televisore, uno dei pochi a quel tempo. Trasmettono una partita del Mondiale. Io scappo dall’ombrellone e corro là: mio padre mi ritrova dopo un’ora, mi avevano issato su un tavolino perché potessi guardare meglio. Già allora era un’ossessione".
2) I suoi idoli?
"Prima le squadre: il Real Madrid, l’Ungheria e il Brasile. Poi i giocatori: Di Stefano, Schiaffino, Pelè".
3) Il suo ruolo da giocatore?
"Comincio ala destra, passo a mediano destro, quindi a terzino destro. E poi... in panchina. Non ero un granché".
4) Caratteristiche tecniche?
"Correvo molto, avevo resistenza e tanta grinta".
5) Talento?
"Lasciamo perdere".
6) Per chi faceva il tifo?
"Per l’Inter. Un giorno il presidente Moratti mi regalò una medaglia d’oro dei tempi di suo padre. Lo ringraziai e gli dissi: “Io ho allenato il Milan, ma non sono un pentito. Stia attento, i pentiti sono i peggiori”.
7) Era bravo a scuola?
"Per carità, non facevo i compiti, non studiavo, se potevo neanche ci andavo a scuola. Ero bravo soltanto in storia e geografia: avevo nove in pagella".
8) Che ragazzo era?
"Non un patacca, cioè uno sbruffone. Ero vivace".
9) Con le donne ci sapeva fare?
"Macché, ero timido. Molto timido. Poi però mi sono sciolto".
10) Lei è rimasto folgorato sulla via di Amsterdam. Quando ha scoperto il calcio olandese?
"Fine anni Sessanta. Dirigevo il calzaturificio di mio padre, ero in Olanda per lavoro. Fu allora che mi innamorai del calcio totale".
11) Che cosa la incantava?
"Il protagonista era la squadra, non il singolo. Vedere le partite dell’Ajax era come andare a un concerto. Musica armoniosa".
12) Nel 1973 comincia ad allenare il Fusignano, in Seconda categoria. Ricorda il debutto?
"In trasferta contro il Sant’Alberto. Noi, l’anno prima, ci eravamo salvati all’ultima giornata e non avevamo un soldo. Loro erano favoriti e ci avevano portato via anche il nostro giocatore più bravo: gli davano 60 mila lire al mese. Beh, sapete com’è finita? Abbiamo vinto 2-0 e un dirigente mi disse: “Dammi uno schiaffo, Arrigo, così capisco che non sto sognando”. Quell’anno vincemmo il campionato".
13) Un uomo decisivo in quel periodo?
"Il maestro Alfredo Belletti, bibliotecario di Fusignano. Era un dirigente della squadra, mi serviva un libero e glielo chiesi. Mi rispose: “Non ci sono soldi, da’ la maglia numero 6 a Tizio e costruisci il ruolo su di lui”. Ho imparato tanto da quelle parole".
14) Prima il cervello e poi i piedi.
"Il calcio nasce dalla mente. Michelangelo diceva che i quadri si dipingono con il cervello, le mani sono soltanto strumenti. La stessa cosa vale per il calcio".
15) 1982, l’Italia di Bearzot vince il Mondiale e lei, nel suo piccolo, vince lo scudetto Primavera con il Cesena. "Avevo appena frequentato il Supercorso di Coverciano, me lo sono pagato con i miei soldi. I ragazzi del Cesena mi seguivano e credevano in quello che dicevo".
16) Ha mai litigato con un suo giocatore?
"Liti vere e proprie, no. Ah, adesso che mi viene in mente, una volta ho messo le mani addosso a un centravanti".
17) E chi era?
"Marco Rossi, quando allenavo il Parma. Pensi che in quella partita aveva anche segnato, ma non si era impegnato. Glielo dissi, lui mi rispose male e io lo presi per il collo".
18) Con Van Basten mai una lite?
"Si è romanzato molto, ma la verità è che tra di noi c’era una grande stima. Dopo una sconfitta i giornalisti andarono da Marco e gli chiesero che cosa pensasse. Lui, abituato alla stampa olandese, si mise a parlare a ruota libera, a dire qual era il suo calcio ideale. Il giorno dopo, le prime pagine dei quotidiani titolavano: “Van Basten contro Sacchi”. Lo presi da parte e gli spiegai come funzionava in Italia il rapporto con la stampa. La domenica lo tenni in panchina e gli dissi: “Visto che ne sai tanto di calcio, oggi stai vicino a me così mi aiuti...”.
19) E quella volta che lo sostituì perché non s’impegnava?
"Accadde a Parma, gennaio 1991. Perdevamo 2-0, io ero squalificato e ordinai al mio vice Galbiati di cambiare Van Basten. Marco mi chiese spiegazioni. Gli dissi che stava giocando male. Mi rispose: “C’erano altri che giocavano male, perché ha tolto me?”. “Perché gli altri correvano, tu no”. Mi chiese quindici giorni di riposo per riflettere. Glieli concessi. Dopo tre giorni voleva essere reintegrato, ma io gli spiegai che mi aveva chiesto quindici giorni e non erano ancora passati".
20) Perché non ha mai amato il calcio all’italiana?
"Perché a me piace essere protagonista e ho sempre voluto che le mie squadre avessero il controllo del gioco".
21) A Parma, alla metà degli anni Ottanta, propone schemi innovativi.
"Avevamo una squadra molto giovane. Chiedevo velocità e movimento, pressing e fuorigioco. E tanta attenzione. Vincemmo in carrozza il campionato di C".
22) Dopo Parma, il grande palcoscenico.
"Sì, ma se io sono arrivato al Milan devo ringraziare i parmigiani. Gente civile, educata, colta. Un esempio: in Serie B perdiamo una partita a Cremona, sono arrabbiatissimo, torno in città, decido di fare una passeggiata e, arrivato in Piazza Garibaldi, mi circonda un gruppo di tifosi. Penso: “Adesso mi fanno la pelle!”. Invece mi portano in trionfo: nonostante avessimo perso, si erano divertiti".
23) Quando incontra Berlusconi?
"Con il Parma affronto il Milan in amichevole e in Coppa Italia. Giochiamo bene. Berlusconi è stupito. Parla con il presidente Ceresini e gli chiede di conoscermi. Il Cavaliere mi dice: “La seguirò per tutto il campionato”. Poi mi chiamò al Milan".
24) Quando sbarcò a Milanello si sentì finalmente arrivato?
"Tutt’altro. Era l’inizio. Dovevo dimostrare di meritare quel posto e quel ruolo. Quindi l’ossessione raddoppiò".
25) È vero che ai giocatori del Milan fece vedere le cassette delle partite del suo Parma? "Debuttavamo in campionato contro il Pisa che io avevo affrontato, in B, pochi mesi prima. Feci vedere a Baresi e agli altri come giocava quel Pisa. Una cosa normale. Poi si romanzò molto".
26) Ma Baresi si arrabbiò.
"Balle. Nessuno mi ha mai rimproverato per quel motivo".
27) Il primo anno rischiò il posto: Berlusconi la salvò.
"Mi difese davanti a tutti, fece capire che io facevo parte del progetto e che, senza di me, non si sarebbe andati avanti. Fu decisivo".
28) Ricorda che cosa disse ai suoi giocatori prima di affrontare Maradona in un Milan-Napoli del gennaio ‘88? "Una cosa semplice, “contadina”: non fategli arrivare il pallone, sennò ci castiga. Difesa alta e fuorigioco a metà campo. Vincemmo 4-1".
29) Quante ore dormiva prima delle partite?
"Poche, pochissime. Ero sempre teso, pensieroso. Studiavo strategie, pensavo a che cosa dovevo dire ai giocatori. Ho dato la vita per il calcio, e il calcio mi ha ripagato".
30) Da dove nasceva il suo stress?
"Dalla paura di deludere le persone che credevano in me".
31) Come gestiva quel malessere?
"Cercavo di farlo diventare un plusvalore".
32) L’avversario più difficile da affrontare, a parte lo stress? "Maradona. Unico, irripetibile. Una personalità pazzesca".
33) Con Berlusconi ci fu un attrito: lui voleva Borghi, lei Rijkaard.
"Lo convinsi. Anche in quel caso Berlusconi dimostrò di essere intelligente e lungimirante. Rijkaard fu determinante per il mio Milan".
34) È vero che Berlusconi non voleva Ancelotti come giocatore?
"Come no? Mi disse: “Non posso acquistare un giocatore che ha il 20 per cento di invalidità a un ginocchio”. Gli risposi: “Mi preoccuperei se l’invalidità ce l’avesse al cervello”. E Ancelotti venne acquistato".
35) Tokyo 1989, finale di Coppa Intercontinentale. Il suo Milan batte il Nacional Medellin, grande festa in albergo e lei...
"Io convoco una riunione perché avevo visto alcune cose che non mi erano piaciute in campo. Non staccavo mai: era la mia forza e la mia debolezza".
36) Vigilia di semifinale di Coppa dei Campioni contro il Real, primavera ‘89. Che cosa accadde?
"Allenamento tirato, Albertini entra duro su Evani che si rompe. Sono senza l’ala sinistra, non so che cosa fare. Parlo con alcuni giocatori che mi danno qualche suggerimento, ma non sono convinto. Alla fine metto all’ala sinistra l’uomo che meno di tutti poteva occupare quel ruolo: Ancelotti. E lui, partendo da sinistra e accentrandosi, segna il primo gol contro il Real Madrid".
37) Al secondo anno di Milan perde lo scudetto per la faccenda della monetina di Alemao. Rabbia?
"Tanta. Ma quella volta ci furono cose poco chiare. Poi ho saputo, però sto zitto sennò mi mettono in galera".
38) Nemmeno uno spiffero?
"Diciamo che la politica non fu estranea a quella vicenda".
39) Perché la notte di Marsiglia, quando il Milan abbandonò il campo, lei non si oppose?
"Ero un uomo della società, dovevo fare quello che i dirigenti decidevano".
40) Dopo il Milan, la Nazionale. E l’Italia si spacca: pro e contro Sacchi.
"Mi vedevano come l’uomo venuto dal nulla. C’era invidia, cercavo di non farci caso. Fu un periodo molto intenso, sentivo una grande responsabilità".
41) E Baggio le diede del matto quando lei lo sostituì. Si arrabbiò?
"No, capii che era uno sfogo. Ma poi, senza Baggio in campo, quella partita contro la Norvegia la vincemmo".
42) Contro la Nigeria, però, eravamo praticamente fuori dal Mondiale 1994, e Baggio ci salvò.
"Ci salvò Okocha, il nigeriano che continuava a perdere palloni perché voleva dribblare tutti, e ci salvò la nostra tenacia: continuammo a giocare fino alla fine, e poi Mussi crossò quel pallone che Baggio buttò dentro".
43) Perché fece giocare Baggio nella finale se non stava in piedi? "Perché i medici e i preparatori mi dissero che poteva giocare".
44) È vero che con Baggio i rapporti erano tesi?
"Sciocchezze. Io lo convocai anche se non stava giocando bene con la Juve. Pensi che ero andato a vedere una partita a Torino, nell’intervallo parlai con l’Avvocato Agnelli e gli chiesi chi dei suoi avrebbe chiamato in azzurro. Mi rispose: “Kohler e Moeller”. “Ma sono tedeschi! E Baggio?” gli feci. Mi sorrise, e da quel sorriso capii molte cose".
45) A Baggio, in Nazionale, che cosa diceva?
"Gli feci vedere quanti palloni toccava nella Juve e gli spiegai: “Se segui il mio gioco, ti garantisco che ne toccherai il doppio. Dopo, però, devi fare la differenza”.
46) Nell’autunno del 1996 il ritorno al Milan. Un errore?
"Sì. Dissi subito a Galliani che non si poteva curare un ammalato grave con l’aspirina. Fu una brutta annata".
47) E all’Atletico Madrid che esperienza fu?
"Meravigliosa, ho sempre pensato che se non fossi stato italiano avrei voluto nascere in Spagna. Ambiente splendido. Ma io non ce la facevo più. Ero stressato, vuoto. Mi dimisi e rinunciai a un sacco di soldi".
48) Poi tornò in panchina nel 2001, con il Parma. Perché?
"Una sfida con me stesso. E poi anche perché lo dovevo a una città che mi aveva regalato momenti indimenticabili".
49) L’Avvocato Agnelli la incoraggiò.
"Mi svegliò alle sette del mattino. A quel tempo io scrivevo per la Stampa, il suo giornale, e facevo il commentatore per Mediaset. I miei datori di lavoro erano Agnelli e Berlusconi. L’Avvocato mi chiese un favore: “Può continuare a scrivere per noi?”. Gli risposi che non era possibile. Capì e mi fece gli auguri. Poi mi chiamò Berlusconi e anche lui mi incoraggiò".
50) L’esperienza, però, durò un mese. Che successe?
"Si spense la luce. Giocammo a Verona, vincemmo, la gente era felice, ma io non sentivo più nulla. Ero a pezzi. Telefonai a mia moglie e le dissi: “Giovanna, sono arrivato alla frutta”. Me ne andai".
51) Che cosa non riusciva a gestire, in quei momenti?
"Lo stress. In quel periodo non dormivo, pensavo solo al calcio, ero un fascio di nervi. Dovevo dire basta".
52) Da dirigente, prima al Parma, poi al Real Madrid e in Nazionale, ha scoperto un altro mestiere.
"Lo conoscevo già. A Cesena allenavo la Primavera ed ero responsabile di tutto il settore giovanile. Un lavoro interessante. Devi dare l’indirizzo a un gruppo di persone che hanno il compito di applicare le tue idee. Bello, appagante".
53) Che cosa deve fare un allenatore?
"Responsabilizzare i giocatori e trasmettere il suo credo. Il gioco comanda, i giocatori lo interpretano. Un mio vecchio allenatore, quando giocavo da mediano e marcavo il numero 10 avversario, mi diceva: “Arrigo, quando prendi il pallone, passalo a Pollini”. Io non capivo il perché. Un giorno gli chiesi: “E se Pollini è malato?”. Non mi rispose. Lì capii che dovevo dare ai miei ragazzi uno spartito da interpretare, sennò non avrebbero saputo affrontare le difficoltà".
54) Da cosa è ossessionato?
"Dalla bellezza e dall’armonia. Quando guardo una partita, voglio lo spettacolo, il divertimento. Ai miei giocatori dicevo sempre: “La gente vi viene a vedere per passare due ore lontano dai problemi. Non dimenticatelo”.
55) In tv che cosa guarda?
"Tanti film, tutti quelli che posso. Quando allenavo non andavo mai al cinema: mi sembrava di rubare tempo al lavoro".
56) Il miglior allenatore di sempre?
"Quello che ha fatto stare bene la sua gente. Quando sono arrivato al Milan c’erano 30 mila abbonati. L’anno dopo erano più di 60 mila. Qualcosa ho fatto, no?".
57) Il miglior allenatore di oggi?
"Ancelotti, Guardiola e Mourinho. Carlo è un maestro nei rapporti. Pep è un professore sul campo. Mou è carismatico e ha metodi innovativi".
58) Se non fosse stato Sacchi chi avrebbe voluto essere?
"Mi dissero che, se fossi nato in Sudamerica, sarei andato in montagna a fare il rivoluzionario. Forse avevano ragione".
59) Se torna indietro nel tempo, che cosa ricorda di Sacchi bambino?
"Quando la maestra mi faceva fare le radiocronache delle partite".
60) Ci spieghi bene.
"Ero maniaco, il calcio lo vivevo intensamente già allora. E la maestra, che sapeva di questa mia passione, si divertiva a chiedermi d’inventare una partita e di raccontarla ai miei compagni. Era bellissimo. Andavo avanti per un quarto d’ora senza fermarmi, non c’era mica la pubblicità...".
61) Che padre è stato?
"Distratto e distante. Non sono stato bravo, lo ammetto. Il calcio mi ha assorbito e non ho regalato tempo alle mie figlie".
62) Chissà che pazienza sua moglie, la signora Giovanna.
"Una santa. Donna intelligente, perché stare vicino a me non è mica semplice. È stata la mia fortuna".
63) E adesso, da nonno, come si comporta?
"Cerco di recuperare, ma non è il mio mestiere. Faccio giocare i bambini, ma dopo un po’ mi stanco. Sono fatto così, c’è poco da fare. La famiglia, per me, è fondamentale, però mi rendo conto che per certe cose non sono portato".
64) Rimpianti, rimorsi, invidie?
"Nessun rimpianto, nessun rimorso. E invidioso, per fortuna, non lo sono mai stato".
65) Errori commessi?
"Tanti. Si dice: chi fa sbaglia. È un proverbio giusto. Io ho sempre cercato di fare, fin da quando a diciannove anni sono entrato in fabbrica e non ci avevo mai messo piede e ho cominciato a dirigere l’azienda. Errori ne ho fatti, ma mai in malafede".
66) Un consiglio da dare a un ragazzo che comincia a giocare a pallone?
"Prima di tutto, lo studio".
67) Studiare calcio?
"No, studiare sui libri. Andare a scuola. Quella è la cosa più importante. Avere cultura è la vera dote dell’uomo. Poi si va in campo".
68) E in campo che cosa gli suggerisce di fare?
"Di usare prima il cervello e poi i piedi. Semplice, no?".
69) C’è un Sacchi in giro?
"Mi auguro di no. Non per me, ma per lui. Il calcio mi ha prosciugato".
70) A settant’anni ritiene di essere un uomo fortunato?
"Fortunato perché ho fatto il lavoro che mi piaceva e che mi ha permesso di vivere bene. Ma ho lavorato, io! E parecchio!".
1) Sacchi, quando entra il calcio nella sua vita?
"Se devo scegliere un momento preciso dico estate 1954. Sono in vacanza con i miei genitori a San Mauro a Mare. Nello stabilimento balneare c’è un televisore, uno dei pochi a quel tempo. Trasmettono una partita del Mondiale. Io scappo dall’ombrellone e corro là: mio padre mi ritrova dopo un’ora, mi avevano issato su un tavolino perché potessi guardare meglio. Già allora era un’ossessione".
2) I suoi idoli?
"Prima le squadre: il Real Madrid, l’Ungheria e il Brasile. Poi i giocatori: Di Stefano, Schiaffino, Pelè".
3) Il suo ruolo da giocatore?
"Comincio ala destra, passo a mediano destro, quindi a terzino destro. E poi... in panchina. Non ero un granché".
4) Caratteristiche tecniche?
"Correvo molto, avevo resistenza e tanta grinta".
5) Talento?
"Lasciamo perdere".
6) Per chi faceva il tifo?
"Per l’Inter. Un giorno il presidente Moratti mi regalò una medaglia d’oro dei tempi di suo padre. Lo ringraziai e gli dissi: “Io ho allenato il Milan, ma non sono un pentito. Stia attento, i pentiti sono i peggiori”.
7) Era bravo a scuola?
"Per carità, non facevo i compiti, non studiavo, se potevo neanche ci andavo a scuola. Ero bravo soltanto in storia e geografia: avevo nove in pagella".
8) Che ragazzo era?
"Non un patacca, cioè uno sbruffone. Ero vivace".
9) Con le donne ci sapeva fare?
"Macché, ero timido. Molto timido. Poi però mi sono sciolto".
10) Lei è rimasto folgorato sulla via di Amsterdam. Quando ha scoperto il calcio olandese?
"Fine anni Sessanta. Dirigevo il calzaturificio di mio padre, ero in Olanda per lavoro. Fu allora che mi innamorai del calcio totale".
11) Che cosa la incantava?
"Il protagonista era la squadra, non il singolo. Vedere le partite dell’Ajax era come andare a un concerto. Musica armoniosa".
12) Nel 1973 comincia ad allenare il Fusignano, in Seconda categoria. Ricorda il debutto?
"In trasferta contro il Sant’Alberto. Noi, l’anno prima, ci eravamo salvati all’ultima giornata e non avevamo un soldo. Loro erano favoriti e ci avevano portato via anche il nostro giocatore più bravo: gli davano 60 mila lire al mese. Beh, sapete com’è finita? Abbiamo vinto 2-0 e un dirigente mi disse: “Dammi uno schiaffo, Arrigo, così capisco che non sto sognando”. Quell’anno vincemmo il campionato".
13) Un uomo decisivo in quel periodo?
"Il maestro Alfredo Belletti, bibliotecario di Fusignano. Era un dirigente della squadra, mi serviva un libero e glielo chiesi. Mi rispose: “Non ci sono soldi, da’ la maglia numero 6 a Tizio e costruisci il ruolo su di lui”. Ho imparato tanto da quelle parole".
14) Prima il cervello e poi i piedi.
"Il calcio nasce dalla mente. Michelangelo diceva che i quadri si dipingono con il cervello, le mani sono soltanto strumenti. La stessa cosa vale per il calcio".
15) 1982, l’Italia di Bearzot vince il Mondiale e lei, nel suo piccolo, vince lo scudetto Primavera con il Cesena. "Avevo appena frequentato il Supercorso di Coverciano, me lo sono pagato con i miei soldi. I ragazzi del Cesena mi seguivano e credevano in quello che dicevo".
16) Ha mai litigato con un suo giocatore?
"Liti vere e proprie, no. Ah, adesso che mi viene in mente, una volta ho messo le mani addosso a un centravanti".
17) E chi era?
"Marco Rossi, quando allenavo il Parma. Pensi che in quella partita aveva anche segnato, ma non si era impegnato. Glielo dissi, lui mi rispose male e io lo presi per il collo".
18) Con Van Basten mai una lite?
"Si è romanzato molto, ma la verità è che tra di noi c’era una grande stima. Dopo una sconfitta i giornalisti andarono da Marco e gli chiesero che cosa pensasse. Lui, abituato alla stampa olandese, si mise a parlare a ruota libera, a dire qual era il suo calcio ideale. Il giorno dopo, le prime pagine dei quotidiani titolavano: “Van Basten contro Sacchi”. Lo presi da parte e gli spiegai come funzionava in Italia il rapporto con la stampa. La domenica lo tenni in panchina e gli dissi: “Visto che ne sai tanto di calcio, oggi stai vicino a me così mi aiuti...”.
19) E quella volta che lo sostituì perché non s’impegnava?
"Accadde a Parma, gennaio 1991. Perdevamo 2-0, io ero squalificato e ordinai al mio vice Galbiati di cambiare Van Basten. Marco mi chiese spiegazioni. Gli dissi che stava giocando male. Mi rispose: “C’erano altri che giocavano male, perché ha tolto me?”. “Perché gli altri correvano, tu no”. Mi chiese quindici giorni di riposo per riflettere. Glieli concessi. Dopo tre giorni voleva essere reintegrato, ma io gli spiegai che mi aveva chiesto quindici giorni e non erano ancora passati".
20) Perché non ha mai amato il calcio all’italiana?
"Perché a me piace essere protagonista e ho sempre voluto che le mie squadre avessero il controllo del gioco".
21) A Parma, alla metà degli anni Ottanta, propone schemi innovativi.
"Avevamo una squadra molto giovane. Chiedevo velocità e movimento, pressing e fuorigioco. E tanta attenzione. Vincemmo in carrozza il campionato di C".
22) Dopo Parma, il grande palcoscenico.
"Sì, ma se io sono arrivato al Milan devo ringraziare i parmigiani. Gente civile, educata, colta. Un esempio: in Serie B perdiamo una partita a Cremona, sono arrabbiatissimo, torno in città, decido di fare una passeggiata e, arrivato in Piazza Garibaldi, mi circonda un gruppo di tifosi. Penso: “Adesso mi fanno la pelle!”. Invece mi portano in trionfo: nonostante avessimo perso, si erano divertiti".
23) Quando incontra Berlusconi?
"Con il Parma affronto il Milan in amichevole e in Coppa Italia. Giochiamo bene. Berlusconi è stupito. Parla con il presidente Ceresini e gli chiede di conoscermi. Il Cavaliere mi dice: “La seguirò per tutto il campionato”. Poi mi chiamò al Milan".
24) Quando sbarcò a Milanello si sentì finalmente arrivato?
"Tutt’altro. Era l’inizio. Dovevo dimostrare di meritare quel posto e quel ruolo. Quindi l’ossessione raddoppiò".
25) È vero che ai giocatori del Milan fece vedere le cassette delle partite del suo Parma? "Debuttavamo in campionato contro il Pisa che io avevo affrontato, in B, pochi mesi prima. Feci vedere a Baresi e agli altri come giocava quel Pisa. Una cosa normale. Poi si romanzò molto".
26) Ma Baresi si arrabbiò.
"Balle. Nessuno mi ha mai rimproverato per quel motivo".
27) Il primo anno rischiò il posto: Berlusconi la salvò.
"Mi difese davanti a tutti, fece capire che io facevo parte del progetto e che, senza di me, non si sarebbe andati avanti. Fu decisivo".
28) Ricorda che cosa disse ai suoi giocatori prima di affrontare Maradona in un Milan-Napoli del gennaio ‘88? "Una cosa semplice, “contadina”: non fategli arrivare il pallone, sennò ci castiga. Difesa alta e fuorigioco a metà campo. Vincemmo 4-1".
29) Quante ore dormiva prima delle partite?
"Poche, pochissime. Ero sempre teso, pensieroso. Studiavo strategie, pensavo a che cosa dovevo dire ai giocatori. Ho dato la vita per il calcio, e il calcio mi ha ripagato".
30) Da dove nasceva il suo stress?
"Dalla paura di deludere le persone che credevano in me".
31) Come gestiva quel malessere?
"Cercavo di farlo diventare un plusvalore".
32) L’avversario più difficile da affrontare, a parte lo stress? "Maradona. Unico, irripetibile. Una personalità pazzesca".
33) Con Berlusconi ci fu un attrito: lui voleva Borghi, lei Rijkaard.
"Lo convinsi. Anche in quel caso Berlusconi dimostrò di essere intelligente e lungimirante. Rijkaard fu determinante per il mio Milan".
34) È vero che Berlusconi non voleva Ancelotti come giocatore?
"Come no? Mi disse: “Non posso acquistare un giocatore che ha il 20 per cento di invalidità a un ginocchio”. Gli risposi: “Mi preoccuperei se l’invalidità ce l’avesse al cervello”. E Ancelotti venne acquistato".
35) Tokyo 1989, finale di Coppa Intercontinentale. Il suo Milan batte il Nacional Medellin, grande festa in albergo e lei...
"Io convoco una riunione perché avevo visto alcune cose che non mi erano piaciute in campo. Non staccavo mai: era la mia forza e la mia debolezza".
36) Vigilia di semifinale di Coppa dei Campioni contro il Real, primavera ‘89. Che cosa accadde?
"Allenamento tirato, Albertini entra duro su Evani che si rompe. Sono senza l’ala sinistra, non so che cosa fare. Parlo con alcuni giocatori che mi danno qualche suggerimento, ma non sono convinto. Alla fine metto all’ala sinistra l’uomo che meno di tutti poteva occupare quel ruolo: Ancelotti. E lui, partendo da sinistra e accentrandosi, segna il primo gol contro il Real Madrid".
37) Al secondo anno di Milan perde lo scudetto per la faccenda della monetina di Alemao. Rabbia?
"Tanta. Ma quella volta ci furono cose poco chiare. Poi ho saputo, però sto zitto sennò mi mettono in galera".
38) Nemmeno uno spiffero?
"Diciamo che la politica non fu estranea a quella vicenda".
39) Perché la notte di Marsiglia, quando il Milan abbandonò il campo, lei non si oppose?
"Ero un uomo della società, dovevo fare quello che i dirigenti decidevano".
40) Dopo il Milan, la Nazionale. E l’Italia si spacca: pro e contro Sacchi.
"Mi vedevano come l’uomo venuto dal nulla. C’era invidia, cercavo di non farci caso. Fu un periodo molto intenso, sentivo una grande responsabilità".
41) E Baggio le diede del matto quando lei lo sostituì. Si arrabbiò?
"No, capii che era uno sfogo. Ma poi, senza Baggio in campo, quella partita contro la Norvegia la vincemmo".
42) Contro la Nigeria, però, eravamo praticamente fuori dal Mondiale 1994, e Baggio ci salvò.
"Ci salvò Okocha, il nigeriano che continuava a perdere palloni perché voleva dribblare tutti, e ci salvò la nostra tenacia: continuammo a giocare fino alla fine, e poi Mussi crossò quel pallone che Baggio buttò dentro".
43) Perché fece giocare Baggio nella finale se non stava in piedi? "Perché i medici e i preparatori mi dissero che poteva giocare".
44) È vero che con Baggio i rapporti erano tesi?
"Sciocchezze. Io lo convocai anche se non stava giocando bene con la Juve. Pensi che ero andato a vedere una partita a Torino, nell’intervallo parlai con l’Avvocato Agnelli e gli chiesi chi dei suoi avrebbe chiamato in azzurro. Mi rispose: “Kohler e Moeller”. “Ma sono tedeschi! E Baggio?” gli feci. Mi sorrise, e da quel sorriso capii molte cose".
45) A Baggio, in Nazionale, che cosa diceva?
"Gli feci vedere quanti palloni toccava nella Juve e gli spiegai: “Se segui il mio gioco, ti garantisco che ne toccherai il doppio. Dopo, però, devi fare la differenza”.
46) Nell’autunno del 1996 il ritorno al Milan. Un errore?
"Sì. Dissi subito a Galliani che non si poteva curare un ammalato grave con l’aspirina. Fu una brutta annata".
47) E all’Atletico Madrid che esperienza fu?
"Meravigliosa, ho sempre pensato che se non fossi stato italiano avrei voluto nascere in Spagna. Ambiente splendido. Ma io non ce la facevo più. Ero stressato, vuoto. Mi dimisi e rinunciai a un sacco di soldi".
48) Poi tornò in panchina nel 2001, con il Parma. Perché?
"Una sfida con me stesso. E poi anche perché lo dovevo a una città che mi aveva regalato momenti indimenticabili".
49) L’Avvocato Agnelli la incoraggiò.
"Mi svegliò alle sette del mattino. A quel tempo io scrivevo per la Stampa, il suo giornale, e facevo il commentatore per Mediaset. I miei datori di lavoro erano Agnelli e Berlusconi. L’Avvocato mi chiese un favore: “Può continuare a scrivere per noi?”. Gli risposi che non era possibile. Capì e mi fece gli auguri. Poi mi chiamò Berlusconi e anche lui mi incoraggiò".
50) L’esperienza, però, durò un mese. Che successe?
"Si spense la luce. Giocammo a Verona, vincemmo, la gente era felice, ma io non sentivo più nulla. Ero a pezzi. Telefonai a mia moglie e le dissi: “Giovanna, sono arrivato alla frutta”. Me ne andai".
51) Che cosa non riusciva a gestire, in quei momenti?
"Lo stress. In quel periodo non dormivo, pensavo solo al calcio, ero un fascio di nervi. Dovevo dire basta".
52) Da dirigente, prima al Parma, poi al Real Madrid e in Nazionale, ha scoperto un altro mestiere.
"Lo conoscevo già. A Cesena allenavo la Primavera ed ero responsabile di tutto il settore giovanile. Un lavoro interessante. Devi dare l’indirizzo a un gruppo di persone che hanno il compito di applicare le tue idee. Bello, appagante".
53) Che cosa deve fare un allenatore?
"Responsabilizzare i giocatori e trasmettere il suo credo. Il gioco comanda, i giocatori lo interpretano. Un mio vecchio allenatore, quando giocavo da mediano e marcavo il numero 10 avversario, mi diceva: “Arrigo, quando prendi il pallone, passalo a Pollini”. Io non capivo il perché. Un giorno gli chiesi: “E se Pollini è malato?”. Non mi rispose. Lì capii che dovevo dare ai miei ragazzi uno spartito da interpretare, sennò non avrebbero saputo affrontare le difficoltà".
54) Da cosa è ossessionato?
"Dalla bellezza e dall’armonia. Quando guardo una partita, voglio lo spettacolo, il divertimento. Ai miei giocatori dicevo sempre: “La gente vi viene a vedere per passare due ore lontano dai problemi. Non dimenticatelo”.
55) In tv che cosa guarda?
"Tanti film, tutti quelli che posso. Quando allenavo non andavo mai al cinema: mi sembrava di rubare tempo al lavoro".
56) Il miglior allenatore di sempre?
"Quello che ha fatto stare bene la sua gente. Quando sono arrivato al Milan c’erano 30 mila abbonati. L’anno dopo erano più di 60 mila. Qualcosa ho fatto, no?".
57) Il miglior allenatore di oggi?
"Ancelotti, Guardiola e Mourinho. Carlo è un maestro nei rapporti. Pep è un professore sul campo. Mou è carismatico e ha metodi innovativi".
58) Se non fosse stato Sacchi chi avrebbe voluto essere?
"Mi dissero che, se fossi nato in Sudamerica, sarei andato in montagna a fare il rivoluzionario. Forse avevano ragione".
59) Se torna indietro nel tempo, che cosa ricorda di Sacchi bambino?
"Quando la maestra mi faceva fare le radiocronache delle partite".
60) Ci spieghi bene.
"Ero maniaco, il calcio lo vivevo intensamente già allora. E la maestra, che sapeva di questa mia passione, si divertiva a chiedermi d’inventare una partita e di raccontarla ai miei compagni. Era bellissimo. Andavo avanti per un quarto d’ora senza fermarmi, non c’era mica la pubblicità...".
61) Che padre è stato?
"Distratto e distante. Non sono stato bravo, lo ammetto. Il calcio mi ha assorbito e non ho regalato tempo alle mie figlie".
62) Chissà che pazienza sua moglie, la signora Giovanna.
"Una santa. Donna intelligente, perché stare vicino a me non è mica semplice. È stata la mia fortuna".
63) E adesso, da nonno, come si comporta?
"Cerco di recuperare, ma non è il mio mestiere. Faccio giocare i bambini, ma dopo un po’ mi stanco. Sono fatto così, c’è poco da fare. La famiglia, per me, è fondamentale, però mi rendo conto che per certe cose non sono portato".
64) Rimpianti, rimorsi, invidie?
"Nessun rimpianto, nessun rimorso. E invidioso, per fortuna, non lo sono mai stato".
65) Errori commessi?
"Tanti. Si dice: chi fa sbaglia. È un proverbio giusto. Io ho sempre cercato di fare, fin da quando a diciannove anni sono entrato in fabbrica e non ci avevo mai messo piede e ho cominciato a dirigere l’azienda. Errori ne ho fatti, ma mai in malafede".
66) Un consiglio da dare a un ragazzo che comincia a giocare a pallone?
"Prima di tutto, lo studio".
67) Studiare calcio?
"No, studiare sui libri. Andare a scuola. Quella è la cosa più importante. Avere cultura è la vera dote dell’uomo. Poi si va in campo".
68) E in campo che cosa gli suggerisce di fare?
"Di usare prima il cervello e poi i piedi. Semplice, no?".
69) C’è un Sacchi in giro?
"Mi auguro di no. Non per me, ma per lui. Il calcio mi ha prosciugato".
70) A settant’anni ritiene di essere un uomo fortunato?
"Fortunato perché ho fatto il lavoro che mi piaceva e che mi ha permesso di vivere bene. Ma ho lavorato, io! E parecchio!".