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Sacchi: 'Allegri un maestro, ma la sua Juve non è bella. Sarri e il nuovo ct...'
Quale dev’essere il tema al centro del campo in questo momento?
“Premessa doverosa e necessaria: adesso basta parole, questo è il momento giusto per cambiare. A patto, ovviamente, di voler invertire la rotta. Il commissariamento della Federcalcio è un’opportunità che va colta al volo, c’è la possibilità di disegnare un progetto, di mettere gli uomini giusti al posto giusto, di rendere concrete le idee. Naturalmente, però, non si deve sottostare alle solite “camarille” italiane, altrimenti di che cosa stiamo parlando?”.
Scusi, Sacchi: l’Italia è fuori dal Mondiale, il movimento è in crisi d’identità e di valori, c’è bisogno di sapere quale strada si deve seguire.
“Una sola, a mio avviso. Si deve mettere il pallone al centro del campo”.
Concetto condivisibile, ma in concreto che cosa significa?
“Semplice: l’Italia, dopo anni di oscurantismo calcistico, ha il dovere di darsi uno stile. Di gioco, prima di tutto. Ma anche culturale. Sarà mai possibile che da noi il calcio sia ridotto soltanto al verbo “vincere”. D’accordo, la vittoria è importante, però una vittoria senza merito che cosa vale? Nulla. Si deve raggiungere il traguardo attraverso valori come il coraggio, l’armonia, la bellezza. Altrimenti i successi resteranno isolati, non si moltiplicheranno, saranno sempre momenti singoli e non parte di una storia”
Eccoci al nocciolo della questione: capire il passato per andare verso il futuro.
"Innanzitutto va compreso un concetto. Al peggio non c’è mai fine. Se noi pensiamo di aver toccato il fondo con la mancata qualificazione al Mondiale, siamo sulla strada sbagliata. Vanno capiti gli errori, perché se non si capiscono ci si ricasca facilmente. Il calcio italiano è lo specchio della società, inutile girarci tanto attorno. Siamo un popolo di furbi, di gente che fa della tattica anche quando va a fare la spesa... Ma, senza strategia, la tattica non è nulla. Noi facciamo un calcio difensivo da sempre, d’altronde l’ultima guerra d’attacco l’abbiamo combattuta quando c’erano i Romani... Potrà mai essere strategico, mi domando, lasciare il pallone agli avversari come fanno la maggior parte delle nostre squadre?”.
Cerchiamo soluzioni, ovviamente concedendo tempo a chi deve metterle in pratica.
“Per trovare una soluzione bisogna leggere la realtà e studiare le contromosse. Come giochiamo noi? Aspettiamo, distruggiamo e ripartiamo. Vi domando: è più facile distruggere una casa o tirarla su? Io penso che a distruggere una casa siano capaci tutti, o quasi tutti, mentre a costruirla no: ci vogliono i geometri, gl’ingegneri, gli architetti. Ecco ciò di cui abbiamo bisogno”.
In soldoni, il pallone adesso ce l’ha Costacurta che deve scegliere il commissario tecnico della Nazionale maggiore. Che cosa dovrebbe fare? “A Costacurta ho detto: “Spero che tu sia lì a operare e a lavorare sul serio”.
Ha qualche dubbio?
“No, però mi sembra che ultimamente il calcio abbia imitato la politica: vedo molti inciuci. Si bada all’immagine. Io, nel 2010, sono stato chiamato dalla Federcalcio, dopo il disastro del Mondiale sudafricano, per dirigere le nazionali giovanili. Con me sono stati nominati Rivera e Baggio, con ruoli diversi che non ho mai compreso. Io ho detto: “Vengo, ma sappiate che io lavoro”. Ultimamente, ad esempio, mi ha dato fastidio, e non poco, questa storia del casting per il commissario tecnico. C’è una lista di nomi, si valutano, si sfoglia la margherita... Ma come? Stiamo parlando di bravi professionisti, con anni di mestiere sulle spalle. Si tratta di scegliere: se voglio fare un calcio difensivo, vado su questo elemento; se voglio un calcio propositivo, mi indirizzo su quest’altro allenatore; se voglio un calcio prevalentemente tattico, opto per quest’altra soluzione. Non c’è bisogno di fare il casting, si deve avere un’idea chiara in testa e poi perseguirla e attuarla”.
Che cosa si aspetta in questo momento di ripartenza del calcio italiano?
“Onestà. E’ troppo chiedere una cosa simile? Forse, in un Paese come l’Italia, sì. Ma non perdo la speranza”.
Le sfide contro Argentina e Inghilterra che cosa potranno dirci?
“Poco o nulla. Non ci sono ancora le idee chiare su chi sarà il c.t., quindi questo è un periodo di passaggio. Di Biagio è un bravo tecnico, ha fatto la gavetta nelle giovanili, ha tirato fuori e cresciuto elementi che saranno utili al progetto azzurro. Gli auguro tutto il bene possibile. Ma penso che i giochi per la panchina della Nazionale si faranno più avanti, e mi auguro che siano giochi limpidi”.
Ci sono molti nomi in lizza: Conte, Ancelotti, Mancini, Ranieri, lo stesso Di Biagio. Che ne dice?
“Sono diversi l’uno dall’altro, come diverso è il calcio che propongono. E qui torniamo al ragionamento precedente: prima devo sapere che cosa voglio fare e poi scegliere l’uomo che può garantirmi di arrivare all’obiettivo. Quando ero direttore tecnico del Parma, all’inizio degli anni Duemila, avevo in mente un progetto. Stesi una lista di allenatori: Delneri, Prandelli e Vialli, che era un mio vecchio pallino. Li contattammo in rigoroso ordine di preferenza. Il primo non accettò, Prandelli disse subito sì e costruimmo qualcosa d’importante. Questo è il modo per darsi un futuro e uno stile”.
L’impressione è che il lavoro di Costacurta non sia semplice e che l’ambiente non sia perfettamente in sintonia.
“Concordo. L’ambiente è fondamentale in un simile processo, e per ambiente intendo i dirigenti, i commentatori, i tifosi. Se non si è allineati, è difficile ottenere buoni risultati. Ho letto le dichiarazioni di Raiola, uno dell’ambiente, contro Di Biagio per la mancata convocazione di Balotelli. Parla della Federcalcio in termini spregevoli, usa la parola “schifo”. Capisco che il suo lavoro sia quello di difendere il suo assistito, cioè Balotelli, ma uno come lui al calcio dovrebbe soltanto dire grazie: gli ha cambiato la vita. E poi: perché non chiedersi come mai Balotelli da un po’ di tempo non viene preso in considerazione? Ci sarà qualcosa, o i commissari tecnici che si sono succeduti sono tutti matti?”.
Quattro o cinque cose che lei farebbe subito per dare una spinta al movimento.
“La prima: le Academies. Tutti i club professionisti devono creare le “accademie” e dare i giocatori per 16-18 ore la settimana agli istruttori federali. Ecco il primo passo. Il secondo gradino: la Federcalcio deve creare dei formatori attraverso il Supercorso di Coverciano. Terzo punto: ci deve essere un protocollo di lavoro comune a tutti i settori giovanili, come esiste in Germania dove, dopo il 2000, si sono dati una mossa e sono tornati grandi. Quarto passo, decisivo: la creazione di centri federali dove i giovani possano formarsi e, di conseguenza, migliorare. Il tutto, sia ben chiaro, con un’idea forte: il pallone dev’essere sempre al centro del progetto”.
E qui siamo al suo desiderio di vedere l’Italia con un gioco offensivo, giusto?
“Sono stanco di sentir dire “basta vincere” oppure “conta solo vincere”. In questo modo si annientano tutti gli altri valori. Noi italiani siamo stati abituati, nel calcio come nella vita, a ottenere il massimo con il minimo sforzo, ma non è questa la strada giusta per progredire. Il calcio è nato come sport di squadra offensivo, e noi invece lo interpretiamo come un fatto puramente difensivo. Ma se facciamo un calcio difensivo penalizziamo, oltre che l’ottimismo dei giovani, le loro qualità tecniche. Esempio: se io tengo il pallone per 70 minuti, ho più possibilità di toccarlo, di giocarci e di divertirmi rispetto a uno che lo tiene soltanto per mezz’ora. Mi sbaglio?”.
Discorso corretto, ma a volte la bellezza sta anche nella capacità di soffrire, di difendere il risultato. Non crede?
“Io, quando soffro, sto male e non mi diverto. Non so voi, ma a me capita così. Ho sempre desiderato, con le mie squadre, essere padrone del campo e del gioco. Quando consigliai a Berlusconi di prendere Sarri gli dissi: “E’ venuto a San Siro e con l’Empoli ha dominato. Con l’Empoli, mi sono spiegato?”. Il suo Napoli mi diverte, mi affascina”.
Già, però sta dietro alla Juve.
“La Juve è straordinaria per carattere, per forza fisica, per determinazione. E anche per la storia e per la cultura che appartengono a quel club da più di un secolo. Contro il Tottenham hanno fatto un capolavoro, e in Champions possono andare avanti parecchio. Considero Allegri un maestro che ha elevato il tatticismo al massimo livello. Bravo, però si è dimenticato della bellezza, dell’armonia, della musica che deve suonare una squadra di calcio”.
Esiste, secondo lei, un deficit di tecnica nei giocatori italiani?
“Tecnica di gruppo, non tecnica individuale. Noi italiani insegniamo ancora la tecnica individuale, mettiamo i bambini contro un muretto a calciare e stoppare, però non li facciamo interagire tra loro e così non li formiamo. Vi racconto un aneddoto: al Milan, quando si facevano le partitelle di calcio-tennis, nessuno voleva avere in squadra Gullit. Il primo a essere scelto, invece, era Lantignotti, bravissimo nella tecnica individuale. Inutile spiegare la differenza tra i due in partita…".
Ci sono, in Italia, allenatori-maestri? “Ci sono allenatori che si giocano la partita e mi piacciono. Penso a Sarri, ovviamente, a Gasperini, a Giampaolo. A Di Francesco che, pur tra mille difficoltà, sta cercando di creare qualcosa d’importante in un ambiente delicato come Roma. E guardo con interesse quello che stanno facendo Zenga a Crotone e De Zerbi a Benevento”.
Riassumendo, alla vigilia della prima partita del nuovo corso, quali devono essere le nostre priorità?
“Pallone al centro del campo. Creazione delle accademie e delle seconde squadre con limiti d’età. Importanza fondamentale nella formazione degli allenatori. Protocollo di lavoro simile per tutti i club. E, per favore, nessun casting per scegliere il commissario tecnico”.