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Incredibile ma vero: Tavecchio sbaglia proverbio, però su Conte ha ragione
“Morto un Papa, se ne fa un altro”: tutti i presidenti pensano così, anche se nessuno lo dice. Eppure è lo stesso proverbio che accompagnò Antonio Conte nell’uscita dalla Juventus, in quel pomeriggio bollente di metà luglio 2014. L’attuale ct si presentò a Vinovo abbronzatissimo come Carlo Conti dei bei tempi e nerissimo (d’umore) come uno che considerava scaduto il tempo di permanenza alla Juve. Infatti: finito un allenatore, se ne fa un altro…
Seduto e invecchiato come Van Gaal oppure giovane e agitato come Allegri, elegante e alterno come Mancini o scarico e polemico come Mourinho: negli ultimi tempi la figura dell’allenatore ha ripreso consistenza. E si tende fin troppo a identificare il rendimento di una squadra con la bravura di chi sta in panchina, dimenticando il valore di chi va in campo. Tutta colpa, si fa per dire, dei Lippi e dei Capello che negli anni d’oro guidavano squadroni imbattibili. “L’allenatore conta appena il 20%”, dicevano, concedendosi il lusso di un’aggiunta vanitosa: “Il tecnico più bravo è quello che sbaglia meno”. Vero, ma non verissimo. L’allenatore incide con percentuale significativa sui risultati della squadra e anche sui conti della società. In questo senso, i casi Van Gaal e Mourinho diventano emblematici: hanno fatto spendere una tombola di milioni a Manchester United e Chelsea, senza ottenere le vittorie sperate. E in assenza di risultati, è naturalmente crollato il valore economico dei singoli giocatori. La sintesi è drammatica: l’allenatore che sbaglia anche suggerimenti di mercato, crea quasi un default in società. Ecco perché il suo operato vale molto più del 20%. Ecco perché il proverbio “morto un Papa se ne fa un altro” sembra utile per valutare le cose più alla leggera, ma guai a prenderle con leggerezza.
La nazionale però è diversa. E’ davvero un’altra squadra, rispetto a quelle del campionato. Infatti sono storiche le liti con i club. E il miglior testimonial del conflitto è proprio Conte, che dal bianconero all’azzurro ha attraversato qualsiasi tonalità di colore, opinione e posizione, riguardo alla gestione dei convocati.
A parte il mercato degli oriundi - praticato in tutto il mondo - il ct seleziona, sceglie, allena per una settimana in campo e guida per una o due partite in panchina. Stop. Non ha conti economici pregressi, né la gestione di giovani o vecchi oppure l’impiego di giocatori costati tanto o poco. Fare il ct è più facile e meno stressante. Ma proprio questo deprime Conte, che per lavorare non ha certo bisogno di leggere la raccomandazione degli sciroppi: “agitare bene prima dell’uso”. E’ già sufficientemente agitato di suo, tanto da apparire anche eccessivo nelle manifestazioni in campo o in conferenza.
L’appuntamento sul futuro della panchina azzurra è stato spostato a primavera. Se Conte non accetterà la proposta federale, sarà un bene soprattutto per lui. Si sentirà più vivo e vivace, realizzato e impegnato.
Se invece accoglierà la proposta di rinnovo, sarà un bene per l’Italia. Ma se l’Europeo non dovesse vincerlo, si prepari all’ovvio confronto con Prandelli e la sua nazionale vice-campione nel 2012.
In ogni caso, all’attuale ct va un consiglio buono e buonista tipico di questi giorni festivi. Se dovesse rimanere in azzurro, si sforzi di eliminare mugugni e insofferenze, malinconie e rimpianti. Corregga quell’immagine di supertecnico che si sente “sprecato” per allenare l’Italia. Forse – forse – è davvero il più bravo. Ma a costo di placare l’esercito di amici e tifosi personali, tutti ossequiosi e osannanti, dica semplicemente se allenare la Nazionale gli garba o no. Se non gli garba, “morto un Papa, se ne fa un altro” diventa la frase più rispettosa e orgogliosa che si possa pronunciare. E per una volta, almeno stavolta: bravo Tavecchio.
Sandro Sabatini (giornalista Mediaset – Premium Sport)
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