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    Rugby, vince la conservazione: no alle atlete trans nelle gare femminili

    Rugby, vince la conservazione: no alle atlete trans nelle gare femminili

    • Pippo Russo
      Pippo Russo
    Una scelta di conservazione. Il 9 ottobre la federazione internazionale del rugby (World Rugby) ha pubblicato nel sito ufficiale un documento in cui “non si consiglia” di ammettere le rugbiste transessuali alle gare femminili (QUI). Una formulazione morbida nei toni ma netta nella sostanza, e che pur lasciando alle federazioni nazionali libertà di applicare o meno il “non consiglio” chiude di fatto la porta a una classe di soggetti che nel documento vengono etichettati “transwomen”.

    Per loro il diritto a praticare rugby agonistico oltre i livelli di base si allontana in modo drastico, e tutto ciò viene giustificato dai dati di una ricerca che vengono sintetizzati in quattro pagine di Power Point scaricabili dal sito di World Rugby (QUI). Quei dati sostengono una tesi che assume una veste dì scientificità e sostiene il rischio per la sicurezza fisica, in uno sport che contempla un grado così accentuato di contatto fisico, che deriverebbe dal far gareggiare atlete transex nelle categorie rugbistiche femminili.

    Il documento passa in rassegna una serie di dati a sostegno del rischio biologico cui si va incontro consentendo la partecipazione di atlete “males to females transgender”. In sintesi viene affermata la tesi che le differenze biologiche fra soggetti maschili e soggetti femminili siano soltanto parzialmente ridotte col passaggio del soggetto transgender da maschio a femmina, e che lo scarto di forza e massa muscolare rimanga ancora troppo rilevante. Ergo, oltre a aversi uno squilibrio competitivo, il rischio per l'incolumità delle giocatrici rimarrebbe troppo elevato. E in conseguenza di ciò “non si consiglia” alle federazioni nazionali di consentire l'accesso delle atlete transgender alle gare femminili, ciò che va in direzione opposta al principio affermato dal Comitato Olimpico Internazionale a gennaio 2004, in prossimità delle Olimpiadi di Atene.

    Allora il CiO stabilì il principio della libertà di scelta da parte delle atlete e degli atleti transgender, che possono optare per gareggiare nel segmento maschile o in quello femminile. Un'indicazione che da allora genera inevitabili polemiche, ma in linea di principio giusta perché riconosce un diritto di cittadinanza (tale deve essere considerato il diritto allo sport, dai livelli di base a quelli d'alta competizione) a una classe di soggetti che rimangono esclusi dalla rigida divisione tra maschile e femminile cui lo sport si uniforma dal momento in cui è diventato un fenomeno organizzato d'alta competizione. E invece la “non raccomandazione” di World Rugby rimette in discussione questo diritto e chiude le porte al mutamento sociale. Va inoltre specificato che a essere sconsigliato è soltanto l'impiego delle atlete transgender nel rugby femminile, e che non altrettanto viene indicato per quanto riguarda gli atleti transgender nel rugby maschile.

    Dunque un robusto passo indietro, che tuttavia ha suscitato reazioni non esclusivamente negative. Per esempio Stonewall, una onlus che opera a tutela dei soggetti LGBT, ha duramente criticato la presa di posizione di World Rugby, ma in senso opposto si è schierata LGB Alliance, che attraverso il cofondatore Bev Jackson ha espresso soddisfazione per un provvedimento “basato su evidenze scientifiche”. E altrettanto positivo è il giudizio che proviene da Fair Play for Women, un'associazione che si batte per salvaguardare l'equità competitiva delle donne nello sport.

    Del resto, i principali malumori verso l'ammissione delle atlete transgender alle competizioni femminili vengono proprio dalle colleghe, che sostengono di trovarsi a competere con soggetti portatori di un vantaggio biologico. A 16 anni dalla determinazione del CIO scopriamo che la strada da fare per integrare nello sport i soggetti transgender è più lunga di quanto pensassimo.

     

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