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Roberto Baggio ricorda Paolo Rossi: 'Volevo essere come lui. Il suo sorriso bello come l'amore materno'
IL PRIMO INCONTRO - "Era l’autunno ’76. Nemmeno noi tifosi del Lanerossi sapevamo chi fosse. Si diceva solo che in squadra fosse arrivata una giovane promessa frenata dagli infortuni. Certi particolari, legati alle difficoltà, mi hanno sempre incuriosito. Guardavo come si muoveva, aggrappato alla rete della porta: i suoi occhi seri e concentrati, quasi nascosti in fondo al volto pallido, me lo facevano sentire vicino".
CAMPIONE COME LUI? - "Quando rho capito? Non c’è un momento. Si impara ogni giorno a diventare forti: purtroppo mai a come rimanerlo. Ma noi, pur con oltre dieci anni di differenza, siamo stati di un’altra generazione. Penso che la mia sia l’ultima dei bambini autodidatti, che passavano infanzia e giovinezza a prendere a calci un pallone per la strada, solo per giocare e divertirsi. Dico che oggi i ragazzi, fin dall’inizio, hanno a disposizione molti più dati per allenarsi e molti più schemi per trovare il loro posto sul campo. Crescono programmati. Noi improvvisavamo, non sapevamo niente degli altri: forse il problema dei piedi è aver perso la libertà di giocare senza pensare".
DUE PALLONI D'ORO UNITI DA VICENZA - "Resta un mistero unico al mondo. Ne abbiamo riso spesso con Paolo: abbiamo concluso che il segreto è la familiarità, che qui viene prima della popolarità. Abbiamo potuto restare semplici, conservare gli amici, avere una famiglia, sentirci sempre a casa, tenere la giusta dimensione. Il Pallone d’oro si vince se non si smette il dialetto".
IL RICORDO - "Luglio 1982. Avevo 15 anni e dopo la vittoria, con Pablito capocannoniere ed eroe di quel trionfo, sono venuto con gli amici a fare festa a Vicenza, in Corso Palladio. Penso che quella notte ho deciso che avrei provato a diventare come lui. Non mi seduceva la gloria, piuttosto l’amore speciale che la gente provava per lui. Ricordava l’amore materno. Commuoveva. Credo che questo sia dipeso dalla sua sostanza, che è stata sempre l’umanità".
SULLA MORTE DI PABLITO- "La fine di quel nostro calcio. Il congedo fisico dall’amico che più mi ha ispirato. Non parlo dei trionfi pubblici, penso agli angoli bui della vita autentica. È l’umanità a fare la differenza".
L'ULTIMO INCONTRO - "Dopo tanto tempo siamo stati insieme in Cina. Ci sono stati lo spazio e il silenzio per parlare di noi, di quanto le nostre esperienze siano state simili, delle cicatrici che il successo incide sugli esseri umani. Parlammo anche della voglia di fare qualcosa insieme per un futuro più sostenibile, soprattutto nel calcio. Posso dire che lui, usando il termine sostenibilità, si riferiva a una cultura".
SUL RIGORE A USA 94 - "Gli ho mai chiesto del rigore? No, Paolo è stato un uomo molto intelligente. Sapeva che io, dopo 26 anni, quando vado a letto tante volte penso ancora a quel rigore.Fin da bambino sognavo di giocare una finale Italia-Brasile. La sorte me l’ha offerta, concedendomi però solo l’impercettibile confine tra la felicità e la disperazione. Paolo è stato un fratello: non c’era bisogno di parole per spiegare le ragioni di un evento atroce e decisivo".
COSA DIRESTI A PAOLO ROSSI - "Ciao Paolo, e soprattutto grazie, come ogni volta".
COSA RESTA - "Il suo sorriso, la forza della sua famiglia, la gioia che ha regalato a tutti. E una lezione: chiamare l’imminenza della morte una fase complicata della vita".