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Rio 2016: sogno d’oro e tipi da spiaggia
A Marco manca tanto la mamma Maria Ciambelli. La prima e forse “unica” donna della sua vita che se ne è andata un mese e mezzo fa, a novantatrè anni, senza soffrire e senza disturbare dopo aver reclinato il capo quasi avesse deciso da sola che era tempo di dormire. Facevano così gli sciamani pellerossa che sapevano perfettamente quando era arrivato il momento. A me manca tanto nonna Caterina, donnina di fine Ottocento che a sei anni lavorava in filanda con le mani nell’acqua bollente e poi, la domenica sera, andava a vendere le arance ai “signori” di Carmagnola che andavano a teatro dove il grande Tamagnone si esibiva nella Boheme. Anche lei è volata via, tanti anni fa, con il sorriso del giusto disegnato sulle labbra. L’ennesimo file rouge tra me e Tardelli. Per la prima volta, in loro compagnia e naturalmente in tempi differenti, lui ed io vedemmo il mare. Marco quello del litorale Pisano. Io quello della Versilia viareggina. Erano i tempi in cui andavano fortissimo i tipi da spiaggia.
Identici su tutti i fronti. Quello del Tirreno e quello dell’Adriatico, un po’ meno sul mare di Liguria che è principalmente sassi levigati dal mare. Per la serie siamo tutti Maurizio Arena o Renato Salvatori, quelli poveri ma belli, verso le sei del pomeriggio arrivavano sul bagnasciuga costringendo noi ragazzini a sbaraccare la pista lungo la quale spingevamo a colpi di dito indice le biglie di plastica con dentro la figurina dei nostri campioni di bicicletta preferiti: da Nencini a Gaul, da Coppi a Bartali, da De Filippis a Massignan. Era dalle undici del mattino che stavamo lì, tra un tuffo e l’altro, a contenderci il bombolone alla crema che sarebbe toccato in premio al vincitore. Sicché il doverla fare finita per lasciare spazio ai “più grandi” non era poi un dramma. Due remi del pattino piantati nella sabbia e un filo di stoffa a unirli. Due contro due o anche tre contro tre. Sfide memorabili di un gioco che oggi si chiama “beach volley” ma che a quel tempo ancora non aveva un nome ben preciso. Ai vincitori, anziché la pasta dolce, un aperitivo ben maschio come il Negroni.
Per Paolo Nicolai e per Daniele Lupo, se le cose dovessero filare via incantate mercoledì alle quattro del mattino ora italiana, quel gioco da spiaggia potrebbe significare un inatteso podio olimpionico piazzato sul tetto del mondo sportivo con la bandiera italiana a sventolare inaspettatamente sotto il cielo di Copacabana a Rio. Il beach volley è entrato ufficialmente a fare parte del già ricchissimo menù del Giochi venti anni fa ad Atlanta, ma è la prima volta che la squadra azzurra riesce a conquistarsi il dritto alle semifinali. Una disciplina nata ufficialmente davanti al Pacifico, sulla costa californiana di Santa Monica nel 1930, ma battezzata come sport agonistico in Italia a Cervia nel 1984. E’ naturale che americani e cubani siano da sempre tra i favoriti, non fosse altro che per abitudine. Ma ecco che, questa volta, arriviamo noi (perlomeno si spera) a fare da terzo incomodo e da guastafeste. Dopo essere stati annunciati dalle performances acrobatiche di Carambula, oramai icona di planetaria di queste vacanze al mare, eccoci a caccia dell’oro. Guardate Nicolai e Lupo, poi chiudete gli occhi. Può essere che, nel buio, compaiano i volti in celluloide di Arena e Salvatori. I nonni da spiaggia, poveri ma belli, dei due giovani atleti azzurri che fanno sogni d’oro.