Nel giorno di Juventus-Atalanta: ricordando Scirea, un campione gentile
Poco più di ventisei anni. Tanto è passato da quel maledetto settembre del 1989, quando l’indimenticabile ex capitano della Juventus, Gaetano Scirea, perse la vita nei pressi di Babsk, un paesino polacco, in seguito ad un incidente stradale. Sarà il desiderio di uscire un istante dal vortice frenetico del moderno calcio business, pieno e ridondante di campioni spesso “standardizzati” all’interno di un sistema vuoto e dorato, accecante ma frivolo. Ecco, è in questo preciso momento storico che penso a Gaetano.
Sapete, l’elogio postumo del campione di solito è facile. Quanto inchiostro è stato versato negli anni per glorificare personaggi illustri scomparsi. Un po’ per affetto, un po’ per stima, un po’ paradossalmente per “allontanarli” da noi, come se santificando il campione che non c’è più lo innalzassimo ad un livello per noi irraggiungibile, lo collocassimo in un ideale olimpo di fuoriclasse. Un elogio vivente, “terreno”, è quello che provo a fare. Scirea è stato con Baresi il più grande difensore della storia del calcio italiano. Sicuramente il miglior libero, ruolo imprescindibile fino alla fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, quando partì la rivoluzione sacchiana e quindi la difesa in linea con l’uso sistematico del fuorigioco, sistema del quale Baresi fu l’interprete migliore.
Cresciuto nell'Atalanta, Scirea giocò quattordici stagioni nella Juventus, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, gran parte delle quali sotto la guida tecnica di Trapattoni. Vinse un po’ tutto. Scudetti, Coppe, anche quella più grande nella tremenda notte dell’Heysel. Era una Juve fantastica quella, con Platini, Tardelli, Rossi, Tacconi, e chi più ne ha più ne metta. Lui, Gaetano, dava equilibrio alla difesa e quindi a tutta la squadra; forse un regista arretrato. La differenza è che lo faceva con signorilità, con “gentilezza”. Dolce e signorile non solo nel quotidiano (come testimoniato da chi lo ha conosciuto), ma proprio sul campo. Pulito a rubar palla, “onesto” nel contrasto. Difficile da spiegare, abituati come siamo a difensori che definire ruvidi è un complimento. Un campione gentile, ecco la definizione giusta. La prova? Mai un’espulsione in carriera. Si, avete letto bene. Mai cacciato dal campo. Per un libero, sempre alle prese con gli attaccanti avversari e in periodi dove l’assenza del “grande fratello” televisivo permetteva un po’ a tutti colpi proibiti qua e là, è davvero un record straordinario. Nel vero significato del termine: fuori dall’ordinario, dalla normalità. Diciamo pure che i falli che non faceva Scirea li commetteva senza rimorso il suo compagno di difesa, Gentile, lui sì di nome ma non di fatto. Si compensavano in fondo: Scirea il libero pulito, “educato”, gentile. Gentile il marcatore duro, arcigno ma leale.
Anche in Nazionale la carriera fu esemplare: lanciato da Bernardini, esordì nel ’75 in amichevole contro la Grecia. Partecipò a tre Mondiali. Il primo in Argentina nel ’78, dove arrivammo splendidi quarti. Nell’86 nei deludenti Mondiali messicani, che giocò da capitano. Nel mezzo l’indimenticabile trionfo in Spagna, il giro di campo al Bernabeu con la Coppa in mano. Anche lì composto, di una gioia gentile. Un modo d’essere che ricorda un altro campione di quell’epoca, anche lui scomparso qualche anno dopo, anche se in circostanze molto diverse: Agostino Di Bartolomei. Una razza di campioni che probabilmente non esistono più. Schivi agli eccessi, questa la loro dote più grande. Il mondo d’oggi avrebbe fatto tanta fatica a capirli. A carriera conclusa, Scirea divenne vice-allenatore della Juventus, fino al tragico epilogo.
Rileggendo, probabilmente neanche il mio è stato un elogio “terreno”. Forse perché è inevitabile la “santificazione” del campione che non c’è più. O forse perché, da qualche parte, l’olimpo dei fuoriclasse esiste davvero.
Raniero Mercuri