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Referendum in Gran Bretagna: Premier League e nazionale hanno votato 'exit'
Nel giorno in cui i cittadini di Sua Maestà votano per decidere se rimanere nei ranghi dell’Unione Europea o riabbracciare la vocazione per l’isolazionismo, il tabellone degli ottavi di finale degli Europei mette in lista le presenze di Galles, Inghilterra, Irlanda e Irlanda del Nord. Ci fosse pure la Scozia, saremmo davanti a una riedizione allargata del vecchio Trofeo Interbritannico, la competizione annuale riservata alle quattro federazioni calcistiche comprese nel comitato olimpico del Regno Unito, disputata con poche interruzioni per un secolo esatto (fra il 1883-84 e il 1983-84, con sospensione soltanto negli anni delle due guerre mondiali). L’intrusa di questa edizione allargata sarebbe l’Irlanda, che non fa parte del Regno Unito né ha più partecipato al Torneo Interbritannico dopo il 1950, ma che con le quattro nazionali soggette alla corona ha in comune molte cose: l’eredità storica, la cultura sportiva, e uno stile calcistico ben identificabile nonché ancora preservato nonostante i meticciamenti prodotti dalla globalizzazione. E in fondo è indicativo che all’appello degli Europei manchino proprio gli scozzesi. Che a proposito di referendum in senso “leave or remain” sono stati precursori. Il 18 settembre del 2014 votarono infatti per scegliere se dar vita a uno stato indipendente o continuare a far parte del Regno Unito. Il voto stabilì che la Scozia rimanesse nella Gran Bretagna, e lo scarto fu anche netto: 55,3% contro 44,7%.
L’esito del voto di oggi, quale che sia, sarà molto meno netto. E il suo impatto su ogni settore della società britannica sarà tutto da scoprire. Tutte le analisi e previsioni proposte in queste settimane, a proposito delle conseguenze che potrebbero essere determinate dal “leave”, hanno dato parecchio l’impressione di essere condizionate politicamente, sia in un senso che nell’altro. Meglio lasciarle da parte e aspettare di vedere come andranno le cose, sempre che il voto popolare vada nella direzione della Brexit. Piuttosto, è necessario fare qualche riflessione sul ruolo che in tutto ciò ha avuto o potrebbe avere il mondo del calcio britannico. Che in questi anni ha percorso una propria traiettoria, e offre delle chiavi di lettura non banali. E dovendo approfondire questo discorso è necessario porre una premessa: si parla di Gran Bretagna, ma la tendenza è quella a concentrarsi sull’Inghilterra, e ciò è ancora più automatico quando si parla di calcio.
Guardando alla realtà inglese attraverso la chiave di lettura calcistica, non si può non segnalare una situazione peculiare. In un momento storico che vede la parte sciovinista del paese mobilitarsi per tornare a un’inflessibile gestione dei confini nazionali, il calcio inglese ha fatto della Premier League uno dei più riusciti brand globali nel mondo dello sport. Capace di sfidare la NBA, ovvero il campionato globale per antonomasia, come nessun’altra lega sportiva europea ha saputo fare. La Premier l’ha fatto sfruttando una forza economica che in altri paesi non si è stati capaci di generare, e ciò è stato possibile attraverso un processo di autonomizzazione della Premier rispetto al resto della piramide calcistica nazionale e a un ricorso massiccio ai calciatori non inglesi sul mercato dei trasferimenti.
Dunque, due dinamiche interpretabili in senso opposto, dal punto di vista delle forze che premono per la Brexit. Da una parte si è avuta la dimostrazione che un distacco dal resto della struttura istituzionale può essere una scelta vincente, ma dall’altra parte arriva il messaggio che l’apporto di lavoratori stranieri è stato indispensabile per il decollo del modello e per il suo successo commerciale in quanto brand globale. E a fare da sfondo a questa storia di successo vi sono degli interrogativi. Quanto può dirsi inglese, oggi, la Premier League? E quanto sono inglesi club ormai globalizzati come l’Arsenal, il Chelsea, i due Manchester, e il Liverpool? La stessa linea di ragionamento va applicata alla nazionale inglese, e ciò suscita ulteriori spunti di riflessione. Come forma di ibridazione culturale, la globalizzazione ha avuto grande influenza su quelli che un tempo chiamavamo “stili nazionali di gioco”. C’era un tempo in cui sapevamo distinguere perfettamente un calcio all’italiana da un calcio alla francese, e un calcio alla tedesca da un calcio alla spagnola. E in quel contesto il calcio all’inglese era il massimo rappresentante dello stile di gioco britannico: molto fisico e “lungo”, esercitato attraverso un massiccio ricorso ai duelli aerei. La nazionale inglese ne era l’espressione di sintesi, rispetto al rudimentale stile “kick and run” delle due Irlande e del Galles, e a quello un po’ più rasoterra degli scozzesi. Ebbene, nell’ultimo decennio lo stile di gioco della nazionale inglese è quanto di meno “inglese e britannico” si possa immaginare. Praticamente irriconoscibile.
La nazionale che ha disputato i mondiali brasiliani del 2014 e quella impegnata negli Europei di Francia hanno messo in mostra un calcio manovrato, e persino stilisticamente ricercato, come mai era capitato di vedere in epoche passate. E qui siamo alla parte più complessa della questione: la squadra di calcio che dovrebbe esprimere al massimo grado l’identità inglese, la esprime in un modo che celebra la rottura rispetto ai canoni identitari tradizionali per guardare alle forme dell’ibridazione. C’è un messaggio in tutto ciò? Sicuramente. E quel messaggio dice che il calcio inglese, nel suo essere rappresentativo dell’intero movimento calcistico britannico, ha già votato “Exit”: ma nel senso che non appartiene più soltanto al Regno Unito, e in un Paese che cedesse alla tentazione di rinserrarsi nei propri confini risulterebbe ancora più fuori contesto. Ma ovviamente il calcio è soltanto una parte della storia intera, e nemmeno la più importante. Dunque, meglio augurare ai cittadini britannici che scelgano il meglio per se stessi, avendo rispetto del risultato che verrà fuori dalle urne. Quale che sia.