Redazione Calciomercato
Real Madrid-Manchester City è la sublimazione di un’idea: in Champions conta solo fare un gol in più degli altri
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“Partite nella partita” nel nuovo Bernabeu, tanto moderno quanto caldo, come e più di prima, anche grazie alla chiusura del tetto retrattile che fa rimbombare l’entusiasmo madridista. Sinceramente fantastico e indimenticabile. Ma…c’è un però. L’emotività del momento, che in questo caso durerà più del solito, non deve farci perdere di vista il quadro d’insieme. Ovvero: Real-City è il meglio del calcio mondiale, è giusto che sia un modello cui ambire ma non può essere un parametro a cui fare riferimento, perché ogni altra sfida perde(rebbe) il confronto. E soprattutto: la Champions è questa da anni ed è a questo stile, a questa intensità, a questa tecnica in velocità che il calcio europeo tende da tempo.
La prospettiva della prossima “SuperChampions” e la cancellazione del “gol doppio in trasferta” avranno incentivato la tendenza, ma le sfide a eliminazione diretta sono così. Da una vita. Ricordate il Liverpool di Benitez, l’Arsenal di Wenger, il Borussia di Klopp, il Barcellona di Luis Enrique, tutte le squadre di Guardiola, l’Ajax di Ten Haag, il Monaco di Jardim, il Tottenham di Pochettino...? E ancora prima, il Manchester United di Sir Alex Ferguson, il Milan di Ancelotti, la Juve di Lippi? A Madrid abbiamo visto la sublimazione di un’idea che domina da anni in Europa: fare un gol più degli altri è più importante che subirne uno in meno. Quando hanno voluto/dovuto vincere, l’hanno messa in pratica anche gli ultimi militanti/estremisti dell’equilibrismo, che spesso ha fatto rima con difensivismo: Massimiliano Allegri, il Cholo Simeone, José Mourinho e un po’ anche Unai Emery con il Villarreal semifinalista 2022.
Insomma: di serate come quelle di questi quarti di andata, in Champions, se ne vedono da anni. La rarità di Real-City è stata la concentrazione estrema di qualità individuale in campo, quello sì. Offensiva: il terreno di gioco non era un tappeto perfetto ma la tecnica dei calciatori in campo non lo ha fatto capire. E anche difensiva: per giocare 90’ in campo aperto in parità numerica (se andava bene) sono serviti posizionamento, coraggio, concentrazione.
Si può dire che la scuola degli allenatori italiani organizza un po’ meglio la fase difensiva di reparto? E che l’unica pecca sia stata la mancata interpretazione dei momenti, che ha portato ad esempio il City a farsi travolgere dal contropiede del Madrid appena dopo aver subìto l’1-1? Probabilmente sì. Così come, ragionevolmente, si può sostenere che tra le otto squadre in lizza, quasi tutte siano più brave a “difendersi con la palla” che senza: consolidando insomma il possesso e togliendo agli avversari l’arma più contundente, ovvero il pallone. Ma è la direzione che il calcio europeo d’élite ha preso da tempo. Ci abbiamo messo qualche annetto più di altri a capirlo, però la mentalità di Inter, Milan e Napoli tra questa e la scorsa stagione, al netto di sorteggi benevoli e comprensibili black-out, certifica che anche il calcio italiano lo ha capito. È la Champions, bellezza. E indietro, per fortuna, non si torna.