La confessione di Ranieri: 'Ho avuto paura di allenare la Roma'
Protagonista del programma "I Signori del Calcio", in onda domani alle 23.30 su skysport 1, Claudio Ranieri ha parlato a tutto campo della Roma e della sua carriera.
Claudio Ranieri, romano e romanista. Cosa significa?
Roma, la romanità, uno se le porta dietro. Il bello è che avendo girato molto, fai sempre dei metri di paragone, vedi luoghi nuovi, e non so se succede così a tutti quanti, però insomma, casa è casa e in più sei romano, e questo è sempre un qualcosa in più, un valore aggiunto. Io credo che ognuno sia orgoglioso di casa propria e della propria città. Noi romani, per alcuni, forse lo siamo un po’ troppo, però è la nostra caratteristica.
Perché Roma è una città diversa?
Io credo che molto dipenda dai nostri antenati e da quello che hanno fatto, dall’impero romano e da tutto quello che è stata Roma nel mondo, l’impero romano nel mondo. Gli Inglesi, ad esempio, quando devono dire che una cosa va fatta bene e ci vuole tempo, il loro motto è: “Roma non è stata fatta in una notte”. E questo spiega cosa significhi Roma anche fuori dall’Italia e dall’Europa, Roma è Roma.
C’è un angolo di Roma che per te rappresenta qualcosa di particolare?
Il mio angolo di Roma è San Saba. San Saba è dove sono nato, dove sono stato battezzato, cresimato, lì ho fatto la comunione, l’asilo, ho gli amici, c’è l’oratorio. Quel colle piccolo di Roma di fronte all’Aventino è un po’ tutto, per cui ancora adesso, magari, quando la mattina per andare a Trigoria la strada mi porta da quella parte, la faccio molto volentieri.
E la Roma? Cos’è la Roma?
La Roma è l’espressione massima del calcio capitolino. Roma è tutto, è l’amore, il trasporto, l’aggregazione. Ci sono le canzoni di Antonello Venditti che la racchiudono, la descrivono benissimo. Non ci si conosce ma ci si ritrova allo stadio e si è tutti uniti, si ama una fede, si ama una bandiera, al di là dei Presidenti, degli allenatori, dei giocatori. Sono pronti lì ad aiutare, a soffrire, a gioire. E per tutto questo credo che Roma sia magica.
E’ stata una scelta di cuore quella di allenare la Roma?
Come facevo a dire di no alla Roma? Da Roma ero partito 36 anni fa, ero un ragazzino in cerca di un domani, di un futuro, di sapere quale fosse la mia vita, se nel calcio o no. Per cui, quando mi telefonarono, ho avuto mille pensieri, perché mi dicevo: “E’ casa mia, vado lì e se le cose vanno male che succede?” Poi ha vinto il cuore, la grande voglia di essere l’allenatore della squadra del mio cuore, per cui sono tornato e ora lotto.
Hai avuto paura quando hai accettato questa proposta?
La paura c’è stata, c’è. Già la differenza fra giocatore e allenatore è immensa, perché da giocatore, giochi, dai tutto te stesso, se commenti un errore e se fai perdere la squadra, ti resta sì l’amaro in bocca però poi dici: “Va bene, nel mondo del calcio può succedere”. Da allenatore no, la responsabilità è tutta tua, nel bene e nel male, anzi, nel bene giustamente sono i giocatori che hanno vinto, quando perdi è l’allenatore che ha sbagliato la mossa, che ha fatto giocare questo, quell’altro, ha messo quello troppo presto, l’ha messo troppo tardi. Le pressioni sono tante, però sono pressioni, sono emozioni. E io faccio questo mestiere per le emozioni che mi da, nel bene e nel male. Molti dicono: Ranieri è nervoso, Ranieri potrebbe essere stressato. Non è così. Io sono stressato quando non lavoro. Lo stare in mezzo a questo caos, mi fa stare con il giusto equilibrio.
Ti ricordi l’emozione della prima panchina all’Olimpico da allenatore della Roma?
Me la ricordo sì. Aspettai tanto perché non volevo uscire e non potevo uscire con la canzone di Antonello Venditti, perché mi sarei emozionato troppo, per cui mi sono messo una maschera e sono andato in campo.
Che ricordo hai del periodo alla Juventus?
Una bella soddisfazione. Sapevo che c’era da ricostruire un ambiente, avevo dei campioni meravigliosi, però ne erano partiti molti di più. Il progetto era di riportare in 5 anni la Juventus ai grandi livelli, per cui dissi di sì perché avevo l’esperienza giusta per poter guidare una squadra come la Juve. E sono sincero, mi dispiacque molto andar via, perché ero convinto di aver fatto un gran bel lavoro.
E’ stato detto: “Ranieri? Bravo, ma crea le fondamenta e gli altri vincono”. Quanto ti fa rabbia?
Credo che ognuno di noi abbia il suo karma, il suo destino, il suo essere e io non ho mai potuto finire un determinato lavoro, però è bello, è stimolante anche costruire. In alcune circostanze mi è mancato, finita la costruzione, di appendere i quadri, di portare i mobili. Pazienza.
Si dice anche che i grandi campioni non ti piacciano. E’ così?
Mi sembra che io li abbia sempre fatti giocare i grandi campioni. Mi piace il campione che si mette al servizio della squadra. Di campioni ne ho avuti tantissimi, da Rui Costa a Batistuta, Zola, Careca, Alemao, Fonseca, veramente tanti. Ci sono stati anche dei campioni che ho messo in panchina. Al Chelsea, avevo la coppia di difesa campione d’Europa e Campione del Mondo: Desailly-Leboeuf, però avevo anche un ragazzino di 19/20 anni che era John Terry e che per me era più forte di Leboeuf, per cui lo misi titolare e da allora non lo tolsi più. Per cui è importante per me vedere e dare fiducia a tutti.
Gianluca Vialli una volta disse: “La vittoria in Inghilterra è un piacere, in Italia è un sollievo”. La condividi?
Sì, è così, per il differente modo di essere sportivi, di fare tifo. In Inghilterra, la gente sposa la propria squadra e quando la squadra ha lottato, tu puoi fare qualsiasi risultato. A me ancora adesso vengono i brividi a pensare al mio primo anno con il Chelsea. Era l’ultima partita, noi dovevamo vincere per andare in Europa e il Manchester City era già retrocesso. Io, da italiano mi dicevo: “Va bene, si va là e si vince”. Sono entrato allo stadio, c’erano 60.000 persone. Quando sono entrati i giocatori del Manchester City, retrocessi la domenica precedente, erano tutti in piedi ad applaudirli. E’ stata un’emozione unica e ancora adesso ho i brividi perché non ho mai visto una cosa del genere. Piangendo, in piedi, li applaudivano. E’ stata una battaglia. Riuscimmo a vincere 2-1 ma fu veramente una battaglia. Ecco le differenze che ci sono. In Inghilterra non ci sono molti media intorno alle squadre di calcio, per cui non ci sono mille domande, mille perché. Tu lavori e finita la partita ci sono due televisioni, a cui esterni i tuoi giudizi, fai la tua conferenza stampa, ti fanno 3-4 domande, che possono anche essere molto particolareggiate, molto velenose, perché no? Dopo, però, lì hai finito. In Italia lì inizia il lavoro. Da quando finisce la partita alla partita successiva, in Italia c’è la sofferenza. Purtroppo è così, ogni Paese ha le sue bellezze e le sue bruttezze. In Italia purtroppo è brutto questo. Noi ricerchiamo magari, in ogni trasmissione, non il perché o il per come, non si può parlare di calcio. Ecco perché tante volte noi allenatori siamo banali, rispondiamo a monosillabi, perché sappiamo che tutto quello che diciamo può essere usato contro di noi. Ci sono trasmissioni che servono soltanto per creare audience, per attirare, appunto, tele o radio ascoltatori, vendere la pubblicità, per cui, più cause alimentano e più vanno avanti. Questo però non è amore per il calcio e non è amore per il mio lavoro.
Qual è stato, invece, il più bel complimento che ti è stato fatto in tanti anni di panchina?
Il più bel complimento che mi hanno fatto è che riesco a tirar fuori sempre il meglio da ogni squadra. E lo dice gente che statistiche alla mano, vede che dove sono stato c’è proprio una media differente. E’ un complimento che mi piace molto.
Hai la sensazione che la tua vittoria più bella debba ancora arrivare?
Sempre. Quello è lo stimolo di ogni uomo, che debba vincere ancora, deve vincere di più, deve raggiungere il sogno, deve raggiungere l’utopia, questa credo che sia la carica degli uomini vincenti. Io voglio sempre vincere e voglio ottenere sempre di più di quello che ho fatto.