Rabbia e frustrazione, la maledetta miscela del calcio. 'Per futili motivi', il libro di Sapo Matteucci
Esce in libreria “Per futili motivi” di Sapo Matteucci (La Nave di Teseo), selezionato per i premi Campiello e Strega.
Ne pubblichiamo un estratto sul calcio giovanile.
Noi genitori offrivamo uno spettacolo indegno. Se non urlavamo, parlavamo, ci agitavamo, saltavamo o restavamo chiusi in un lutto inviolabile. Ai ragazzi parlavano tutti. Tutti avevano qualcosa da dire. Il Presidente parlava, il magazziniere parlava, il segretario parlava, l'allenatore parlava, i padri parlavano, le madri parlavano. Sempre. Durante gli allenamenti, durante le partite, mentre uscivano o rientravano nello spogliatoio. Soffiate tecniche, ammaestramenti morali, ingiunzioni caratteriali. La parte peggiore erano proprio i genitori. Sbavanti, genuflessi, irati, esaltati, depressi. Costantemente, in caso di sconfitta, scandalizzati.
Ogni tanto gli allenatori venivano alle mani, di fronte ad arbitri che erano ragazzini impauriti, mentre dalla tribuna partiva partiva un mezzo coro:” Dovete menà lui. L'arbitro!”. La madre di un nostro terzino portava perennemente un foulard leopardato. Attirava la buona sorte. Glielo aveva regalato un fidanzato, anni prima, terzino del Sora, che lei - mal gliene incolse - non seguì nel Portogruaro. Il fidanzato non tornò. Restarono il figlio e il foulard, che contornava una testa leonina di boccoli lucenti dalla cui bocca usciva una sola parola, “troia”, indirizzata a qualsiasi soggetto femminile tra i tifosi avversari. Nello smadonnamento generale s'incitava a fare del male più che a giocare bene.. A troncare, falciare, spaccare. All'opposto se un nostro attaccante cadeva si snocciolava una giaculatoria scandalizzata, s'intonava un requiem per il calcio, si esigeva rispetto per la bellezza del gioco, per l'arte sublime, in contrasto con la forza bruta.
Sì, il calcio ha a che fare con la rabbia e la frustrazione poi trasformate in violenza. E' questa miscela l'energia del calcio, fin dai primi vagiti, dai primi tocchi in un gruppetto tre contro tre, dalle prime magliette. E' sempre colpa di qualcun altro, dell'avversario, dell'arbitro, d'un tuo compagno che sbaglia un passaggio. E quella colpa monta, sale, lievita. Più ci si organizza più si radica l'identità (la divisa sociale, il campo, il mister, gli accompagnatori, i palloni nelle reti a tracolla, le sagome per le punizioni,, i campionati, gli arbitri vestiti di nero, la classifica...), più la rabbia cresce. La rabbia è proporzionale al mito dell'identità: più divisa sociale, più rabbia.
Il padre, la madre, lo zio, s'incazzano. Sempre: prima, durante e dopo. Se il figlio non s'incazza è un immaturo, un pusillanime, uno incapace di stare al mondo.
Si sarebbero anche divertiti, i nostri figli, con le portine, i birilli. Ma già lì, ancor pulcini, che tiravano un po' a caso perché l'importante all' inizio era impattare il pallone e riuscire a mandarlo in avanti o a passarlo quando si correva, già lì qualcuno storceva la bocca. Lo facevano giocare troppo a destra, Mario, lui, “un sinistro naturale” e “a un ragazzino non gli puoi dire di passare la palla anche indietro, poi gli rimane nel futuro; invece bisognava andare avanti, sempre avanti. Non si può essere catenacciari...”.
Ne pubblichiamo un estratto sul calcio giovanile.
Noi genitori offrivamo uno spettacolo indegno. Se non urlavamo, parlavamo, ci agitavamo, saltavamo o restavamo chiusi in un lutto inviolabile. Ai ragazzi parlavano tutti. Tutti avevano qualcosa da dire. Il Presidente parlava, il magazziniere parlava, il segretario parlava, l'allenatore parlava, i padri parlavano, le madri parlavano. Sempre. Durante gli allenamenti, durante le partite, mentre uscivano o rientravano nello spogliatoio. Soffiate tecniche, ammaestramenti morali, ingiunzioni caratteriali. La parte peggiore erano proprio i genitori. Sbavanti, genuflessi, irati, esaltati, depressi. Costantemente, in caso di sconfitta, scandalizzati.
Ogni tanto gli allenatori venivano alle mani, di fronte ad arbitri che erano ragazzini impauriti, mentre dalla tribuna partiva partiva un mezzo coro:” Dovete menà lui. L'arbitro!”. La madre di un nostro terzino portava perennemente un foulard leopardato. Attirava la buona sorte. Glielo aveva regalato un fidanzato, anni prima, terzino del Sora, che lei - mal gliene incolse - non seguì nel Portogruaro. Il fidanzato non tornò. Restarono il figlio e il foulard, che contornava una testa leonina di boccoli lucenti dalla cui bocca usciva una sola parola, “troia”, indirizzata a qualsiasi soggetto femminile tra i tifosi avversari. Nello smadonnamento generale s'incitava a fare del male più che a giocare bene.. A troncare, falciare, spaccare. All'opposto se un nostro attaccante cadeva si snocciolava una giaculatoria scandalizzata, s'intonava un requiem per il calcio, si esigeva rispetto per la bellezza del gioco, per l'arte sublime, in contrasto con la forza bruta.
Sì, il calcio ha a che fare con la rabbia e la frustrazione poi trasformate in violenza. E' questa miscela l'energia del calcio, fin dai primi vagiti, dai primi tocchi in un gruppetto tre contro tre, dalle prime magliette. E' sempre colpa di qualcun altro, dell'avversario, dell'arbitro, d'un tuo compagno che sbaglia un passaggio. E quella colpa monta, sale, lievita. Più ci si organizza più si radica l'identità (la divisa sociale, il campo, il mister, gli accompagnatori, i palloni nelle reti a tracolla, le sagome per le punizioni,, i campionati, gli arbitri vestiti di nero, la classifica...), più la rabbia cresce. La rabbia è proporzionale al mito dell'identità: più divisa sociale, più rabbia.
Il padre, la madre, lo zio, s'incazzano. Sempre: prima, durante e dopo. Se il figlio non s'incazza è un immaturo, un pusillanime, uno incapace di stare al mondo.
Si sarebbero anche divertiti, i nostri figli, con le portine, i birilli. Ma già lì, ancor pulcini, che tiravano un po' a caso perché l'importante all' inizio era impattare il pallone e riuscire a mandarlo in avanti o a passarlo quando si correva, già lì qualcuno storceva la bocca. Lo facevano giocare troppo a destra, Mario, lui, “un sinistro naturale” e “a un ragazzino non gli puoi dire di passare la palla anche indietro, poi gli rimane nel futuro; invece bisognava andare avanti, sempre avanti. Non si può essere catenacciari...”.