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  • Quando Villar Perosa era 'Juvelandia'

    Quando Villar Perosa era 'Juvelandia'

    • Marco Bernardini
    Era il “Sogno di un pomeriggio di mezza estate”. Popolare, divertente, poetico, struggente e molto magico. Proprio come quello, notturno, shakeasperiano nel quale il folletto Puck tesseva trame meravigliose per i suoi amici elfi divertendosi a inventare ogni sorta di innocente scherzo per gli innamorati che volevano perdesi nel bosco. Era la madre di tutte le Prime Volte per ciascun inizio di stagione. Il debutto o, se più vi piace, il vernissage attraverso il quale il Palazzo bianconero presentava ufficialmente il nuovo gioiello di famiglia al suo popolo innamorato pazzo. Era una festa senza confronti possibili. Si iniziava la mattina presto con l’arrivo dei primi avamposti in scalata lungo la strada della Val Chisone che finisce al Sestriere. Si chiudeva a notte fonda con una lunga fila di automobili dirette non solo verso Torino ma anche altre città più distanti, alcune persino straniere. Tutti a dire “io c’ero” all’happening per celebrare nostra Signora degli Scudetti. Villar Perosa era (ed è stata per decenni) la capitale del regno di Juvelandia.

    Poi, con l’avvento delle regole dettate da un Cavaliere tutt’altro che senza macchia, il calcio della gente e delle tradizioni ricevette una spallata brutale e fu costretto, suo malgrado, a farsi più in là. Un tal Antonio Giraudo, ex ultra granata da ragazzino con il balcone della sua casa affacciato sul Filadelfia, ingaggiato dalla “concorrenza” cominciò a dire che il rendez vous stagionale e canonico di mezza estate  non solo era demodè ma soprattutto non rendeva una lira alle casse della società. Va bene il rispetto per la gente e va anche bene la salvaguardia di un rito quasi sacro ma, lorsìgnori, il gioco  del pallone sta cambiando alla velocità della luce e rifiutarsi di mettersi in riga con le esigenze primarie i Tempi Nuovi equivarrebbe a fare harakiri. Così sosteneva l’amministratore delegato ben spalleggiato dai nuovi yuppies bianconeri. 

    Villar Perosa da quella Camelot che era divenne improvvisamente e quasi senza preavviso un paesotto qualunque di un valle qualsiasi abbandonato alla depressione sociale e strutturale. Il luogo, anonimo e senza anima, che i tifosi della Juventus avranno trovato questo pomeriggio per l’appuntamento con la loro squadra che un tempo era una “messa cantata” e che al suo confronto, da un bel po’ di anni, in quanto a emotività e passione è praticamene il nulla.

    Faccio fatica a contare i giorni di mezza estate in cui arrampicarsi a Villar non era soltanto un dovere professionale ma anche un piacere per chi ama il calcio. E questo non vale soltanto per la data del debutto ufficiale (perlopiù a Ferragosto) ma anche per la ventina di giorni che lo precedevano e che, per la Juventus, rappresentavano il tempo della grande fatica pre-campionato. La sede del ritiro era un piccolo hotel affacciato sul costone del paese, provvisto di camere molto essenziali ma di ottimo cibo al quale provvedeva l’azienda di Ernesto Pellegrini. Per anni anche io ho dormito lì. Oggi sarebbe impensabile un giornalista nel ritiro della squadra. Onestà intellettuale e rispetto reciproco, allora, lo permettevano. E non sto parlando della preistoria, ma del decennio trapattoniano prima delle invasioni barbariche televisive e non. 

    Nulla trapelava sui giornali di quel che accadeva in ritiro. Paola, la moglie del Trap, mentre dopo la cena riposava sulla sdraio in giardino centrata in pieno da un gavettone che Domenico Marocchino aveva lanciato dalla finestra pensando di colpire Giuan. Fughe notturne dai tetti dei giocatori scapoli per andare a caccia di cameriere con le quali amoreggiare. I massaggiatori Luciano De Maria e Valerio Remino che, a mezzanotte, portavano in camera a Rossi e Tardelli la crostata di mele perché altrimenti con riuscivano a dormire. Proprio come accadeva a Franco Causio che obbligava il dottor Francesco La Neve a saltar giù dal letto a ore impossibili per farsi portare un Mogadon. Zoff e Scirea sempre al telefono per parlare con Anna e Mariella. Nella camera di Tacconi nebbia in Val Padana da Marlboro. Ore di ansia, di incazzature e di disperazione quando nel piccolo hotel arrivava il presidente Giampiero Boniperti insieme con il dottor Giuliano davanti ai quali, uno a uno, sfilavano i giocatori per il rinnovo di un contratto sempre difficile. Scarpinate sui monti con la lingua di fuori e improvvisamente allarme rosso perché non si trovava più Platini. Lo rintracciava il buon vice del Trap, Romolo Bizzotto, seduto sul greto del fiume Chisone con i piedi nell’acqua e una sigaretta tra le labbra. “Tanto mica sono io che devo correre, ma Bonini”, diceva le roi. Ne avrei da scrivere un’enciclopedia, credetemi.

    Un  libro, del resto l’ho scritto. E nasce proprio a Villar Perosa  nell’estate successiva alla sciagurata notte dell’Heysel quando conobbi Edoardo (foto Dagospia.com). Un amico autentico e raro “spalmato” lungo quindici anni di vita dal giorno in cui eravamo tutti in attesa, a bordo campo del SKF, che la Juve facesse il suo esordio. Mi si avvicinò un uomo elegante e mi sussurrò: “Il dottore la sta aspettando in villa. Faccia finta di nulla e mi segua senza farsi notare”. Edoardo, quel giorno, regalò a me e a “Tuttosport” lo “scoop” più importante di tutta la mia carriera e della storia del quotidiano per il quale lavoravo. Ma, soprattutto, l’opportunità di conoscere una persona davvero eccezionale e bella dentro come pochi.  Fu quella l’unica volta che non vidi arrivare l’elicottero dell’Avvocato dal cielo sopra Juvelandia. Come è accaduto oggi ai nostalgici di una Villar estinta o a quelli che non possono sapere.

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