Platini: 'Stadi italiani mezzi vuoti, scordatevi i soldi di arabi e russi'
Dagli uffici dell'Uefa nella palazzina di Nyon che si affaccia sul lago si gode un panorama stupendo ma anche quello che gli riserva il calcio non gli sembra male. Michel Platini è rimasto da dirigente ciò che era da giocatore: un fantasista concreto, il fuoriclasse che inventa il colpo però con la percezione del punto oltre il quale non ci si può spingere per non cadere nel ridicolo o nel fallimento. In quattro anni e mezzo da presidente dell'Uefa «le Roi» ha usato lo stesso metro. Ha portato a casa le rivoluzioni che poteva fare, dalla riforma della Champions League all'introduzione degli arbitri di porta, e un po' ha cambiato il calcio senza stravolgerlo. «Perché - dice - il calcio è come la politica, il business e ogni altra manifestazione della vita: sopravvive a se stesso anche quando si pensa che debba esplodere perché troppe cose che non vanno. Vive di alti e bassi».
Oggi sono più i primi o i secondi?
«Gli alti sono migliaia, dall'ultima finale di Champions a un bambino che gioca in una periferia. I bassi sono pochi ma bisogna saperli gestire: la violenza, il doping, il razzismo, le scommesse fatte dall'interno del nostro mondo».
Queste ultime sono diventate un pericolo vero?
«Le scommesse sono più preoccupanti perché intaccano il gioco e coinvolgono i calciatori. Per il calcio è molto più brutto».
Ed è un fenomeno più difficile da combattere?
«Al contrario. Non posso mettere un poliziotto dietro a ogni hooligan, sulle partite invece possiamo fare tante cose attraverso il sindacato dei calciatori: ogni volta che avremo dei sospetti faremo intervenire i giudici. L'esperienza italiana ci sarà utile in futuro. Si è capito che il calcio deve appoggiarsi a giudici e poliziotti perché noi non possiamo investigare sul privato delle persone per trovare le prove. Sarebbe pericoloso permettercelo».
Il calcio demonizza le scommesse ma prende i soldi delle agenzie.
«Non lo dica a me. Non volevo che le società di scommesse entrassero nel calcio e l'hanno fatto. Non volevo che sponsorizzassero le maglie e l'hanno fatto. Non sono mai stato un partigiano dei finanzieri arabi, russi e americani e ogni anno ce ne sono di più. Contro il business e la globalizzazione ci sono cose che non posso fare».
Contro il razzismo e la violenza invece ha potuto fare qualcosa.
«Abbiamo messo delle regole e tutti sanno cosa rischiano: la fine della partita. La violenza ormai è localizzata in qualche Paese. Invece le scommesse nascono da unproblema economico: i calciatori che non sono più pagati vendono le partite.Vanno beccati e mandati a casa per sempre».
Quest'anno parte il fair play finanziario.
«Sarà la prima stagione monitorata. Tra due anni potranno essere prese le prime sanzioni».
Moratti dice che non può spendere per il fair play mentre inglesi e spagnoli comprano di tutto. Come lo può spiegare?
«Vedremo come ce lo spiegheranno loro. Le regole le conoscono e può darsi che si mettano in difficoltà».
C'è sempre il dubbio che i grandi club non si possano toccare.
«Lo si diceva anche in Francia quando si installò la Direzione di controllo. Poi Marsiglia e Bordeaux finirono in B».
Ma come può un Manchester City investire tanto se deve necessariamente raggiungere il pareggio in breve tempo?
«Noi lavoriamo sul controllo delle perdite. Certi club invece lavorano sui debiti. È come chi si fa prestare cento milioni dalla banca per comprare casa: se paga regolarmente il mutuo mica lo mandano in galera. Dov'è il problema?».
Dunque chi ha alle spalle un emiro o un finanziere russo che passa a saldare il mutuo può fare tutto. Allora cosa cambia?
«Anche gli Agnelli, Moratti e Berlusconi ripianavano i conti. E comunque le cose non stanno più così. Chi metterà 100 milioni facendoli passare per la sponsorizzazione dovrà dimostrare che avere il nome sulla maglia vale tanto».
C'è un po' di confusione, no?
«L'importante è accettare la scelta filosofica, il resto lo farà l'esperienza sapendo che non siamo qui per uccidere i club ma per reintrodurre una normalità che non porti ai fallimenti a catena».
È vero che vuole riequilibrare il peso tra i club e le Nazionali?
«Voglio ridare più lustro alle Nazionali, come era ai miei tempi. Dal 2014 i diritti televisivi saranno centralizzati all'Uefa, come per la Champions League e visto che chi li compra avrà tutto il pacchetto si può pensare a una valorizzazione in tv con trasmissioni da tutti i campi che generino interesse».
Non è che la gente si identifica meno con le Nazionali?
«Semmai si identifica di più. È che la Nazionale si vede ogni tanto e i club ogni tre giorni. Bisogna trovare un equilibrio».
È l'anno che porta agli Europei. Sempre convinto che sia stato giusto affidarli alla Polonia e all'Ucraina?
«Gli stadi ci saranno, le atmosfere pure. Come per i Mondiali in Sudafrica il calcio non avrà problemi e creerà entusiasmo. Se poi in Ucraina non si è potuto costruire hotel a 5 stelle e ci saranno difficoltà per gli alberghi inventeremo qualcosa: magari voli charter che portino i tifosi nelle città in cui si gioca e li riportino via dopo la partita».
A proposito di Nazionali, quella italiana sprofonda nelle classifiche. Lei ci vede la crisi del nostro calcio?
«Sono i cicli, c'è una generazione meno buona delle precedenti».
Non c'è una perdita di fascino? L'Inter campione del mondo voleva Villas Boas ma l'ha preso il Chelsea.
«Non è questione di fascino ma di soldi. Il potere economico c'è ancora, soltanto che quello che anni fa dettavano la Juve o il Milan sul mercato internazionale oggi lo fanno gli altri».
Trent'anni fa scelse la Juve, oggi stranieri che valgono la metà di lei faticano ad accettarla. Non è un brutto segnale? «La Juve ha sofferto molto il passaggio in B, ne è risalita subito ma ricostruire non è facile neppure se si presenta qualcuno con 500 milioni da spendere. Non mi stupisce quello che succede».
Un conto è non vincere e un altro è restare fuori dalle coppe.
«Lo so ma ci vuole tempo anche se i tifosi non aspetteranno tanto a lungo. Il problema è che nel calcio non basta darsi un piano».
Crede che sia possibile per la Juve passare in un anno dal settimo posto allo scudetto?
«Sela società lo vuole può fare un grande salto. Bisogna azzeccare le scelte. Il Milan ha rotto il dominio dell'Inter trovando i giovani giusti per migliorare».
Come le sembra la serie A?
«Si vede un buon calcio. La brutta immagine la offrono gli stadi mezzi vuoti. Mi chiedo come un arabo o un russo, guardando la tv, possa essere invogliato a investire nel calcio italiano: come minimo pensa che interessi a pochi».
È che andare allo stadio è diventato faticoso.
«Senza dubbio, però prima era pericoloso andarci e tra il pericoloso e il faticoso scelgo il secondo. Chissà che questi controlli riportino la serenità e la festa di quando ci stavo io».
Sarebbe più facile se anche da noi ci fosse un Barcellona? «Quello è un grande spot del calcio: mi ricorda un po' la Francia degli Anni Ottanta, non la mia Juve che vinceva ma aveva tutto un altro stile. Il Barcellona vince e appassiona».
Il modello è replicabile?
«Ci si può arrivare. Ma chi mette in disparte un quattordicenne di buona tecnica per uno alto 20 centimetri in più o che fa 3 secondi in meno sui 100 non avrà mai Xavi o Iniesta».
In A tifa Juve. La promozione del Novara la mette in crisi?
«No, ne sono felice. Del Novara mi parlavano quando ero piccolo, raccontandomi delle imprese in A anche se era retrocesso quando avevo un anno. Andrò a vederlo. Volevo farlo per la prima di campionato però temo di dover aspettare un'altra data, magari Novara-Juve. Sarebbe bello, no?».