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Pippo Russo: Yaya Touré, il calcio africano e il mancato salto di qualità
Guardando al risultato si potrebbe pensare che finalmente siano state poste le basi per una crescita definitiva del calcio . Ma l’illusione svanisce subito se si scorre l’albo d’oro della manifestazione. In cima al quale si trova ancora la Nigeria, vincitrice della prima edizione nel 1985. Da allora sono passati 30 anni, e i giovani fenomeni nigeriani di allora hanno fatto in tempo a invecchiare e smettere di giocare. Si scopre pure che su 16 edizioni , 7 sono state vinte da nazionali africane: 5 dalla stessa Nigeria e 2 dal Ghana. Di ciò non si è avuto il minimo riflesso a livello di calcio senior, dove i massimi risultati espressi dalle nazionali africane si fermano alla semifinale sfiorata dal Camerun ai mondiali di Italia 90 e alle medaglie d’oro della Nigeria e dello stesso Camerun alle Olimpiadi di Atlanta 1996 e Sidney 2000. Tutti risultati raggiunti nel decennio fra i Novanta e l’inizio del XXI secolo, il tempo in cui pareva che la crescita stesse procedendo. E invece il quindicennio successivo ha registrato soltanto un argento olimpico della Nigeria a Pechino 2008, battuta in finale dall’Argentina. Nulla di rilevante, invece, ai Mondiali. Crescita ferma.
Di questa fase di stallo ha parlato Yaya Touré, soffermandosi soprattutto sulle carenze individuali dei calciatori che dal continente africano approdano al calcio europeo. E a dire il vero lo ha fatto partendo da un argomento piuttosto narcisistico. Ha infatti affermato che i calciatori africani diretti in Europa nell’ultimo periodo hanno dovuto affrontare un confronto impietoso coi fenomeni arrivati nel decennio passato: Eto’o, Essien, Okocha, Drogba e… Yaya Touré. Questo carico di aspettative sarebbe un elemento negativo per loro. Ma una volta pagato il tributo alla vanità personale dell’intervistato, l’intervista prende una piega interessante. Specie quando il centrocampista dei Citizen si sofferma sulla variabile anagrafica. A suo giudizio sarebbe bene che i calciatori africani arrivino in Europa molto giovani, prima della maggiore età. Perché quella è l'età soglia giusta per socializzare un calciatore a un sistema professionistico troppo distante da quello che vige in Africa. In questo senso, a suo giudizio i calciatori che arrivano in Europa all’età di 22-23 anni troveranno sempre grandi difficoltà di adattamento, perché sono andati troppo avanti nel processo di maturazione personale e professionale per essere ricettivi verso un cambiamento così radicale di mentalità. Mettendola sul piano personale, Yaya Touré ricorda di quando a 17 anni arrivò in Belgio, al Beveren, e dopo poche settimane si ritrovò per la prima volta a allenarsi nella nebbia fitta. Un’esperienza traumatica come tante altre affrontate in quei primi mesi, ma che come egli stesso riconosce gli è servita per far crescere la sua mentalità da professionista.
L’intervista pubblicata da France Football è piena di spunti molto interessanti, ma riportarli tutti sarebbe cosa troppo lunga. Ci si limita dunque a riferire la parte che riguarda i cliché sui calciatori africani e la loro veridicità. E qui Yaya Touré sorprende perché dice che quei cliché in parte riflettono il vero, poiché molti dei calciatori africani che se li vedono applicare finiscono per renderli reali attraverso il loro comportamento. Si sforzano di somigliare agli stereotipi che gli europei alimentano su di loro. Per esempio, riguardo alla tesi secondo cui “ai giovani calciatori africani manca la fame necessaria a sfondare”, il centrocampista ivoriano dice che piuttosto è un problema di costanza. Da giovani i calciatori africani sembrano più pronti rispetto ai coetanei europei, già quasi adulti in termini tecnici e atletici. Ma poi in gran parte sia adagiano quasi subito, mentre i ragazzi europei proseguono il loro percorso di maturazione. L’altro cliché è quello dell’africano “festoso”, quello che nello spogliatoio mantiene un comportamento più allegro e espansivo rispetto alla media ma per questo rischia di non prendere troppo sul serio l’impegno da professionista. Yaya Touré dice il cliché dell’africano festoso corrisponde spesso al vero, e che ciò è dovuto alle circostanze dell’adattamento a contesti diversi, ciò che spinge il giocatore venuto dall’Africa verso questo tipo di comportamento. Un modo come un altro per ridurre il disagio e farsi accettare da un contesto totalmente diverso.
Concetti molto profondi, raccontati da un testimone privilegiato perché può raccontare le cose attraverso la propria esperienza. Purtroppo non sempre questa consapevolezza è diffusa, sia in Africa sia presso noi europei che continuiamo a interpretare in modo sbrigativo la realtà del calcio africano.
@pippoevai