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Pippo Russo: il calcio brasiliano alla ricerca della sua base
Seduti attorno al tavolo si sono ritrovati sette allenatori che hanno guidato il Brasile in passato (LEGGI QUI). Assieme a Gilmar Rinaldi, coordinatore delle nazionali verdeoro, erano presenti: i campioni del mondo Carlos Alberto Parreira e Mario Zagallo, oltre a Paulo Roberto Falcao, Carlos Alberto Silva, Sebastião Lazaroni, Candinho e Ernesto Paulo. Altri ex CT erano stati invitati ma non hanno presenziato: Mano Menezes, Luis Felipe Scolari, Vanderlei Luxemburgo, Émerson Leão e Edu. C’era invece Carlos Dunga, la cui presenza in quel consesso è forse il segno più evidente di quanto il calcio brasiliano abbia abbassato l’asticella delle pretese in questa fase storica. Perché in altri tempi un allenatore della nazionale che si piazzasse anche secondo in una competizione internazionale sarebbe stato cacciato con ignominia. E invece questa è l’epoca in cui un allenatore eliminato ai quarti della Coppa America può mantenere la panchina della Seleçao. Un ridimensionamento mentale prima ancora che calcistico. Del resto, basta guardare l’albo d’oro della nazionale brasiliana per capire tale abbassamento di ambizioni. L’ultima vittoria mondiale risale al 2002, e dunque da qui all’edizione di Russia 2018 saranno sedici anni di digiuno. Ma anche sul versante della Coppa America i numeri cominciano a farsi pesanti. Perché l’ultima affermazione del Brasile in questa competizione risale al 2007, e nelle due successive edizioni (fra le quali quella appena conclusa) la squadra verdeoro non è approdata nemmeno alle semifinali. Rimangono due vittorie in Confederations Cup (2009 e 2013), ma in questo caso si tratta di una manifestazione talmente anomala da fare poco testo.
Dunque siamo davanti a una crisi di sistema, e la sua durata comincia a farsi rilevante. Tale stato di sofferenza è stato ribadito nel corso di un dibattito che ha segnalato degli spunti di grande interesse (LEGGI QUI). Ne è risultato che il problema strutturale del calcio brasiliano stia nel fatto che la sua base sia ormai quasi sconnessa dal vertice, costituito da un esercito di calciatori che giocando nei principali campionati europei non hanno più contatto con la realtà nazionale e da una pattuglia di club della massima serie ormai incapaci di proteggere i loro giovani talenti dalle mire degli speculatori. Quello della partenza precoce dei talenti è un problema tanto pesante quanto inevitabile, nell’epoca della globalizzazione calcistica. Ma è anche una piaga tuta casereccia quella dei tornei di B e C, che hanno smesso d’essere campionati di formazione per trasformarsi in ricoveri di ultratrentenni. Si tratta dunque di una situazione estremamente complessa e di difficile soluzione. Tutto ciò mentre si approssima il primo anniversario del “Mineirazo”. Domani sarà un anno esatto dall’umiliante 1-7 subìto dai brasiliani nella semifinale del mondiale casalingo contro la Germania. E tornando su quel rovescio, buono a lasciarsi dietro un trauma secolare, Dunga ha commentato a margine del Consiglio Strategico: “Di quella sconfitta dobbiamo guardare il lato positivo”. Già. A trovarne uno. Con queste premesse, sarà lungo il lavoro di ricostruzione.
@pippoevai