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    Pippo Russo: Oriundi? Signor Conte almeno si documenti

    Pippo Russo: Oriundi? Signor Conte almeno si documenti

    All’improvviso ci si accorge che gli oriundi sono un problema, e che se una rappresentativa nazionale vi fa eccessivo ricorso rischia il comportamento antisportivo oltreché di mancare fede alla propria missione principale. Che sarebbe quella di promuovere l’eccellenza del calcio di un Paese, e non certo quella di andare a caccia dei talenti lasciati liberi dalle rappresentative di altri Paesi.

    La polemica è esplosa in seguito a una presa di posizione dell’allenatore interista Roberto Mancini, che ha criticato la mossa del CT azzurro Antonio Conte di assegnare una maglia dell’Italia a altri due calciatori nati all’estero ma diventati italiani per jus sanguinis: Eder Citadin Martins, brasiliano della Sampdoria, e Franco Vazquez, argentino del Palermo. Il commissario tecnico della nazionale ha risposto usando argomenti pasticciati. Ma quest’ultimo aspetto lo illustrerò più avanti, quando si tratterà di fare due postille sulla questione. Che è complessa e riflette una delle più importanti trasformazioni del calcio contemporaneo, investito dai processi di globalizzazione e non ancora capace di metabolizzare il cambiamento in corso.

    Mi tocca fare una premessa al ragionamento esponendo l’opinione personale sulla questione: per quanto mi riguarda, in una rappresentativa nazionale dovrebbero giocare soltanto i calciatori nativi del Paese in oggetto, o al limite quelli nati in un altro Paese ma approdati giovanissimi in quello che li naturalizza. E tuttavia mi rendo conto che la mia è una posizione un po’ troppo romantica, non più in sintonia coi tempi che stiamo attraversando. Inoltre, da sociologo quale sono prima ancora che giornalista, sono abituato a analizzare i fenomeni sociali (e quelli sportivi fra essi) cercando di mettere da parte i convincimenti personali. Dunque, ammettiamo pure l’idea che oggi le nazionali possano arruolare calciatori nativi di un altro Paese per potenziarsi. Del resto, se esistono regolamenti delle federazioni internazionali che lo permettono è persino inutile stare a accapigliarsi in polemiche. È consentito farlo, dunque lo si fa. Semmai è sul modo in cui lo si fa che bisogna discutere, così come sulle valutazioni suscitate da un sistema calcistico nazionale che prenda a fare un ricorso sistematico agli oriundi. E guardando a questi due aspetti non si può non vedere un’ulteriore conferma della decadenza del calcio italiano.

    C’è innanzitutto da sgombrare il campo da un equivoco: quello che porta a fare un paragone con la Germania e la sua recente svolta multietnica, decisiva per rilanciare un calcio che a metà degli Anni Zero pareva moribondo. Paragone sballatissimo. I calciatori della nazionale tedesca del 2010, la prima del nuovo corso, erano quasi tutti tedeschi di nascita. Anche quelli con cognomi stranieri. Faceva eccezione il solo Cacau, brasiliano giunto in Germania da calciatore maturo e naturalizzato dopo 8 anni di residenza. Una presenza nemmeno rilevante per quella nazionale, a dirla tutta. Naturalizzati erano pure Klose, Trochowski e Podolski. Nati in Polonia, ma da genitori tedeschi (elemento determinante, per un paese la cui legislazione sulla cittadinanza si basa sul principio dello jus sanguinis), e comunque giunti giovanissimi in Germania, perciò formati culturalmente e calcisticamente come qualsiasi altro ragazzo tedesco: Klose all’età di 8 anni, Trochowski a 5 anni, Podolski addirittura a 2 anni. Stesso discorso per la nazionale che quattro anni dopo ha vinto il mondiale in Brasile. Tutti tedeschi, perché in Germania o per jus sanguinis e precoce insediamento nel Paese. Giusto per capirsi: sono tedeschi al cento per cento calciatori dai cognomi esotici come Özil, Khedira, Aogo, Taşçi, Boateng, Gomez, Mustafi. Nessuno di loro è stato naturalizzato, men che meno in età adulta e da calciatore formato in un altro Paese. Dunque, chi paragona l’Italia degli oriundi alla Germania multietnica dice una solenne sciocchezza e ottiene soltanto di provocare ulteriore confusione.

    E veniamo al dettaglio degli oriundi italiani, quelli che a partire dal XXI secolo sono stati arruolati per difendere sui campi di calcio la bandiera di un Paese diverso da quello in cui sono nati. Gli ultimi della serie sono due buoni giocatori, su questo nulla da eccepire. Fra l’altro, nel caso di Eder si può dire che sia italiano “per sviluppo”. Nel senso che è arrivato nel nostro paese all’età di diciotto anni e qui è maturato. Dire che lo si possa equiparare a un homegrown (cioè, un calciatore cresciuto nel nostro sistema di formazione indipendentemente dalla sua nazionalità) sarebbe troppo, ma certo ormai lo si può considerare calcisticamente italiano, come era stato nel caso di Cacau in Germania. Non altrettanto si può dire per Franco Vazquez, giunto in Italia tre stagioni fa a 23 anni e nazionale italiano “in mancanza di meglio”. Il suo è uno dei tanti casi di calciatori che accettano la chiamata di un’altra nazionale dopo aver avuto la certezza di non essere convocati dalla propria. Come era stato nel caso di Mauro German Camoranesi, capostipite dei nuovi oriundi italiani e campione del mondo azzurro nel 2006 quando mille volte avrebbe voluto giocare con la sua Argentina. E come invece non è stato nel caso di Paulo Dybala, compagno di squadra di Vazquez a Palermo e legittimamente in corsa per una maglia della nazionale biancoceleste.

    Eder e Vazquez sono gli ultimi due elementi di una galleria recente di oriundi che si segnala per un dato: la mediocrità. Fatta eccezione per Camoranesi, tutti gli altri arruolati compongono una lista desolante: Amauri, Ledesma, Thiago Motta, Osvaldo. Fino a toccare il fondo con Paletta e Romulo, quest’ultimo in procinto di andare ai mondiali brasiliani e fermato soltanto da un infortunio. E proprio i nomi di Paletta e Romulo sollecitano le considerazioni più amare a proposito degli oriundi in nazionale e dello stato di salute del nostro calcio. Perché, volendo ragionare in termini meramente utilitaristi, si può anche ammettere di naturalizzare un calciatore già formato: ma purché si tratti di un elemento che faccia fare il salto di qualità alla squadra. Per esempio, Deco naturalizzato da Portogallo. O Diego Costa naturalizzato dalla Spagna, anche se poi nel suo caso i risultati del campo non sono stati all’altezza delle aspettative. Ma se invece ci si riduce a naturalizzare calciatori del calibro di Paletta e Romulo, ciò significa una sola cosa: che la scuola calcistica italiana ha fatto default, e che la sua ricostruzione sarà lunghissima. Perché passi il non essere in grado di produrre altri talenti come Roberto Baggio o Paolo Maldini. Ma se non siamo nemmeno in grado di produrre calciatori del calibro di un Paletta o un Romulo, allora forse è meglio chiudere baracca per un po’. Né basteranno le infornate di oriundi a correggere la rotta a precipizio verso la catastrofe.

    Detto tutto ciò, due postille annunciate. La prima riguarda le politiche della FIGC sul tema, a proposito delle quali esiste una linea di continuità fra le gestioni Abete e Tavecchio. Da entrambi i presidenti sono giunte, nel corso del tempo, ripetute sollecitazioni ai club affinché limitino il ricorso ai calciatori stranieri. Un invito condivisibile, se non fosse che poi è proprio la federazione a fare man bassa di stranieri per rinforzare la nazionale. E se non è quest’ultima a difendere il principio di nazionalità e le strutture nazionali di formazione, perché mai dovrebbero essere i club a farlo? La solita ipocrisia italiana.

    La seconda considerazione, annunciata all’inizio, riguarda Antonio Conte. Che prendendo la parola sulla questione degli oriundi in nazionale, e rispondendo alle obiezioni di Roberto Mancini, ha dichiarato che in altri paesi più maturi queste polemiche non avrebbero senso. E ha citato la Francia “e i suoi calciatori africani”. Scusi Conte, ma di quali africani parla? Di Bakari Sagna, nato a Sans in Borgogna? Di Mamadou Sakho, nato a Parigi come Eliaquim Mangala? Di Moussa Sissoko, nato a Le Blanc-Mesnil nell’Île de France, stessa regione in cui hanno sede le cittadine di Nemours in cui è nato Geoffrey Kondogbia e Lagny-sur-Marne in cui è nato Paul Pogba? Di Blaise Matuidi, nato a Tolosa? Di Karim Benzema, nato a Lione come Kurt Zouma e Nabil Fekir? Di Josuha Guilavogui, nato a Ollioules, regione Provence- Alpes- Côte d’Azur? O forse di Rio Mavuba, nato in mare mentre i genitori viaggiavano verso la Francia in fuga dall’Angola in guerra? Facendo una rapida ricognizione si scopre che attualmente l’unico africano arruolato da adulto per la nazionale francese è il portiere Steve Mandanda del Marsiglia, nato a Kinshasa ma cresciuto nelle giovanili del Le Havre. Caro Conte, ci sono stati meno africani nella nazionale francese degli ultimi vent’anni che oriundi in quella italiana degli ultimi dieci. La prossima volta che vuole sostenere una polemica si documenti.

    ​Pippo Russo
    @pippoevai


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