Perugia-Juve, 40 anni fa la tragedia di Renato Curi: obbligò il calcio a crescere
Il clima meteorologico pareva aver presagito ciò che sarebbe accaduto quel giorno. Il cielo piangeva lacrime gelide e l’aria era ghiaccia come soltanto in Umbria riesce ad esserlo certi giorni anche prima che arrivi l’inverno. L’appuntamento sportivo era quello delle grandi occasioni. La Juventus del potere trapattoniano a confronto con il Perugia portatore sano di una nobiltà ritrovata grazie al suo presidente galantuomo D’Attoma, ad un allenatore pioniere di moderne strategie come Castagner, di giocatori con il cuore in mano come Novellino, Vannini e Curi. Lo spettacolo non sarebbe mancato, malgrado la pioggia e il vento.
In tribuna stampa affiancavo il collega maestro Vladimiro Caminiti. Lui avrebbe raccontato, ma soprattutto cantato come soltanto il sue genio poetico sapeva inventare, la partita. In quel modo io potevo concentrare tutte la mia attenzione esclusivamente sul “castigamatti” della Juventus seguendolo per tutti i novanta minuti nella sua prestazione. Impossibile da non riconoscere in mezzo agli altri, Renato Curi. Una sorta di “puffo” bianco e riccioluto sempre in movimento. E quel suo essere ovunque lo rendeva una gemma preziosissima per il gioco preteso da Castagner.
Improvvisamente, sul finire del primo tempo, Curi si bloccò toccandosi il polpaccio della gamba destra e poi uscì dal campo zoppicando. Immaginai che il mio compito di osservatore speciale di un giocatore speciale fosse finito lì, per quella domenica. Manco potevo minimamente immaginare ciò di assurdo sarebbe accaduto tra poco e che il mio lavoro si sarebbe concluso lontano dallo stadio.
Curi era rientrato per giocare il secondo tempo e pareva in perfetto ordine. Cinque minuti e una manciata di secondi dal via della ripresa, crolla a terra da solo sulle tre quarti del campo. Nessun avversario lo la toccato. Più che cadere sembra afflosciarsi come un pupazzo pieno d’aria forato con uno spillo o come un palloncino colorato che esplode tra le mani di un bambino. Corrono e si avvicendano intorno a lui compagni e giocatori avversari.
Bettega si mette le mani tra i capelli. Causio urla come un ossesso verso la panchina perché qualcuno faccia presto nel portare aiuto a quello che, osservato dall’alto, sembra un manichino colorato già gonfio di pioggia. Ambulanza e di corsa all’ospedale, dopo i vani tentativi di rianimare il poveretto. Lascio la stadio e guido come un folle verso il luogo dove Curi è stato trasportato. Il suo corpo, non lui. La sua anima era già volata via da quel pezzo di campo verde e inzuppato di acqua con, a fargli da corona, un popolo tifoso raggelato nel cuore. Sarà Sandro Ciotti a dare l’annuncio in radio della tragedia avvenuta dopo aver chiesto la linea ad Ameri. Non per un gol, ma perché “Renato Curi è morto pochi istanti fa”. Lo stadio di Perugia verrà intitolato a lui.
Un evento pazzesco che, paradossalmente, servì tantissimo al mondo del calcio obbligandolo a riflettere sulla necessità fondamentale di prevenire in ogni modo disastri di quel tipo. La medicina applicata al gioco, fino a quel giorno, non si era mai preoccupata fino in profondità di conoscere e testare in maniera completa quella bella razza di ragazzi sani a tutti i costi. L’uso del defibrillatore sui campi di calcio era pratica sconosciuta. Curi aveva nel petto un “cuore matto”, come Bitossi. Lui persino ci scherzava sopra. Ma da quella domenica di quarant’anni fa nessuno nel mondo del pallone prese più alla leggera le indagini dovute su calciatori al di sopra di ogni sospetto. Nessun sacrificio è inutile. Quello di Renato Curi fu davvero epocale.