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Perché non si può condannare il gesto di Xhaka e Shaqiri
E’ vero che lo sport dovrebbe rappresentare il momento più nobile per il pensiero umano, soprattutto quando l’evento è planetario come nel caso di un'Olimpiade o di un Mondiale di calcio. E se nell’antichità persino nazioni bellicose come quelle della Grecia durante il periodo “sacro” dei giochi sospendevano ogni attività di guerra, è perché la sragione talvolta può essere domata dalla ragione. Sotto questo punto di vista, almeno a livello formale, il "gesto dell’aquila" con il quale i due giocatori "kosovari" della Svizzera, Xhaka e Shaqiri, hanno mostrato in mondovisione per esprimere a tutto tondo il loro stato d’animo dopo aver battuto la Serbia striderebbe con il contesto etico della sportività e pertanto andrebbe censurato.
In realtà le cose non sono così semplici e soprattutto prima di esprimere un giudizio di condanna, a mio avviso fuori luogo, occorrerebbe riflettere e ragionare su ciò che ha spinto i due calciatori elvetici per adozione a compiere un atto sicuramente clamoroso che ha irritato non poco il governo di Belgrado e messo in allarme la Fifa. L’animo umano, visto che per fortuna ancora non viviamo di intelligenza artificiale, in determinate occasioni sfugge a quelle che dovrebbero essere gli input suggeriti dalla razionalità. Pulsioni, più o meno nascoste, e sentimenti assortiti che arrivano da lontano trasportati dai ricordi prevalgono sul freddo ragionamento e incidono sul comportamento individuale. La vicenda di Xhaka e Shaqiri deve essere emblematica anche per coloro i quali si ostinano a pensare e a dire che tra politica e sport non vi possono essere contaminazioni di sorta.
In questo caso più che di politica si deve parlare di guerra. Quella tragica e sanguinosa che sul finire degli Anni Novanta trasformò la regione dei Balcani in una sorta di orrenda macelleria a cielo aperto. In particolare, il Kosovo dove le milizie serbe di Milosevic scatenarono la loro furia contro l’inerme popolazione di origine albanese per una mattanza senza precedenti per l’epoca contemporanea. Qualcuno riuscì a fuggire lasciando la sua terra insieme con amici e parenti che non avrebbe più visto. Erano, ante litteram, le avanguardie di quel colossale esercito composto da “migranti” in fuga per sopravvivere che oggi tanto turba l’Europa. Xhaka e Shaqiri, allora, erano due bambini che con i loro genitori, a differenza di tanti altri, ebbero la fortuna di potercela fare e di venir adottati dalla Svizzera sino a diventare cittadini elvetici. Ma i due calciatori prima di riuscire a scappare vennero marchiati a fuoco dentro le loro anime e le loro menti. Bombe, esecuzioni, morti e paura. Tanta paura. Ieri, nel momento della massima gioia personale, non potevano evitare di rivedere come in un film dell’orrore le scene che, per mano dei padri dei loro avversari serbi, li avevano costretti a vivere un’infanzia da inferno in terra. Così, a turno, hanno fatto volare l’aquila. Ecco perchè non solo non vanno condannati, ma capiti e sostenuti dalla solidarietà di tutti.
In realtà le cose non sono così semplici e soprattutto prima di esprimere un giudizio di condanna, a mio avviso fuori luogo, occorrerebbe riflettere e ragionare su ciò che ha spinto i due calciatori elvetici per adozione a compiere un atto sicuramente clamoroso che ha irritato non poco il governo di Belgrado e messo in allarme la Fifa. L’animo umano, visto che per fortuna ancora non viviamo di intelligenza artificiale, in determinate occasioni sfugge a quelle che dovrebbero essere gli input suggeriti dalla razionalità. Pulsioni, più o meno nascoste, e sentimenti assortiti che arrivano da lontano trasportati dai ricordi prevalgono sul freddo ragionamento e incidono sul comportamento individuale. La vicenda di Xhaka e Shaqiri deve essere emblematica anche per coloro i quali si ostinano a pensare e a dire che tra politica e sport non vi possono essere contaminazioni di sorta.
In questo caso più che di politica si deve parlare di guerra. Quella tragica e sanguinosa che sul finire degli Anni Novanta trasformò la regione dei Balcani in una sorta di orrenda macelleria a cielo aperto. In particolare, il Kosovo dove le milizie serbe di Milosevic scatenarono la loro furia contro l’inerme popolazione di origine albanese per una mattanza senza precedenti per l’epoca contemporanea. Qualcuno riuscì a fuggire lasciando la sua terra insieme con amici e parenti che non avrebbe più visto. Erano, ante litteram, le avanguardie di quel colossale esercito composto da “migranti” in fuga per sopravvivere che oggi tanto turba l’Europa. Xhaka e Shaqiri, allora, erano due bambini che con i loro genitori, a differenza di tanti altri, ebbero la fortuna di potercela fare e di venir adottati dalla Svizzera sino a diventare cittadini elvetici. Ma i due calciatori prima di riuscire a scappare vennero marchiati a fuoco dentro le loro anime e le loro menti. Bombe, esecuzioni, morti e paura. Tanta paura. Ieri, nel momento della massima gioia personale, non potevano evitare di rivedere come in un film dell’orrore le scene che, per mano dei padri dei loro avversari serbi, li avevano costretti a vivere un’infanzia da inferno in terra. Così, a turno, hanno fatto volare l’aquila. Ecco perchè non solo non vanno condannati, ma capiti e sostenuti dalla solidarietà di tutti.