Perché la gente di Anfield piangerà per Gerrard quando lascerà il Liverpool
Niente annunci in diretta tv, niente piazzate allo stadio, niente conferenze stampa fiume. Nessuna attesa per la fine del campionato, quando magari qualche trofeo poteva risollevare la mediocre stagione del Liverpool e preparare il terreno ad un addio in pompa magna. No, solo una misera nota sul web dopo una gara qualsiasi, come è nello stile, umano e sportivo, di Gerrard, tanto deciso quanto umile e silenzioso nei suoi 17 anni spesi ad Anfield Road, con 177 reti all’attivo e tanti trofei portati in bacheca, su tutti una Champions e 2 FA Cup.
«Non giocherò per un club concorrente, non sfiderò il Liverpool, una cosa che non avrei potuto mai contemplare. Voglio sperimentare qualcosa di diverso nella mia carriera», continua la nota. Non poteva essere diverso: forse Gerrard andrà negli Usa, di certo non rimarrà in Premier, col rischio magari di dover scendere in campo contro la sua ex squadra ed essere pagato per farle del male. Per ora avrà ancora 5 mesi a disposizione per chiudere al meglio la sua storia d’amore col Liverpool. Ma il tempo che resta è nulla in confronto a quanto visto fin qui, con quel legame tanto stretto tra calciatore e stadio che difficilmente, ormai, nello sport giocato a grandi livelli si vede. Dicono che nel calcio di oggi non esistono più bandiere: a volte certe formule vengono ripetute alla nausea e perdono di senso, rimangono solo formule retoriche. Purtroppo, il loro fondo di verità c’è sempre. Gerrard, invece, è la prova che qualche eccezione esiste ancora. E quando l’eccezione c’è occorre godersela.
Ad Anfield Road si commuovono per lui e ringraziano, questo sebbene nella storia di Stevie G manchi con rammarico una parola, “scudetto”, sempre scappato da Liverpool negli anni di attività di Gerrard (i Reds non vincono un titolo dal 1990). Lo scorso anno pareva la volta buona: i ragazzi di Rodgers partono bene poi s’infangano, ma nel girone di ritorno centrano 11 successi consecutivi e vanno primi. Sembrava fatta, se non fosse stato per uno scivolone clamoroso di Gerrard contro il Chelsea, a tre giornate dal termine: palla regalata a Demba Ba, sconfitta incredibile e addio primato. A sbagliare, proprio lui, Gerrard, quello che non dovrebbe tradire mai, a mostrare il lato più beffardo del pallone, che con gli eroi si fa bello ma, a volte, se ne prende gioco. Beh, dopo quello scivolone Stevie praticamente piangeva, e Anfield con lui. Ma un secondo dopo lo stadio lo ha applaudito. Più di prima.
Perché Gerrard è stato una cordigliera degli ultimi 20 anni del pallone inglese, ma è stato grande senza dirlo. Sguardo spesso aggrottato, poche parole davanti ai microfoni, non si è fatto conquistare dallo showbiz di cui, ormai, si nutre anche il pallone britannico. Non è stato un Terry, un Lampard, un Ferdinand o addirittura un Beckham, sempre in tv o sui giornali. Non ha vinto alcun Pallone d’oro, né grandi premi sportivi a livello internazionale. Ma ha fatto parlare di sé solo per una cosa: il campo, sempre lo stesso di Anfield. E quando lo volevano i migliori club del mondo (si ricorda, su tutti, il Real dei Galacticos) lui ha sempre detto “no” con riflessione e garbo, senza strombazzare in giro il suo voto di fedeltà ai Reds. Per questo la gente lo ha amato: lo sente uno di loro, schivo ma semplice, riservato ma normale. Al diavolo la retorica e le frasi fatte, ad averne di bandiere così.