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Pep Guardiola, il mito barcolla
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La differenza, in effetti, è stata tutta lì. Entrambe le squadre erano in emergenza, l’unità anticrisi era già stata convocata a Manchester come a Torino: ma Thiago Motta ha capito che il trasformismo tattico è un’arte, non un limite. E che chiedere alla squadra di giocare con più accortezza significa trasmettere ai calciatori l’umiltà che alimenta concentrazione, compattezza e convinzione. E forse non è un caso che anche i portieri abbiano fatto la differenza in questo, che la fame di Di Gregorio, alla prima grande serata di Champions della carriera, abbia spinto le sue mani più in là di dove (non) sono arrivate quelle di Ederson. In fondo, le occasioni da gol sono state le stesse per entrambe. Ma la Juve ci è arrivata con più facilità. Se “il calcio è lo specchio della vita” (sempre Ruben Dias) allora Juve-City è stata lo specchio dell’ambizione diversa di due club con momenti simili e orizzonti diversi: da una parte la smania di crescita dei bianconeri, dall’altra il timore di ridimensionamento (causa processo incombente) dei Citizens.
In tanti hanno aspettato Pep per anni sulla riva del fiume e il livore delle critiche odierne sembra direttamente proporzionale al tanto tempo trascorso ad attendere questo momento. In fondo, però, Pep lo ha sempre ripetuto: “C’è un solo segreto per tutte le mie vittorie: i miei calciatori”. Per questo l’efficienza fisica è sempre stata una discriminante fondamentale nelle sue scelte di mercato. “Storia clinica”, direbbe Mourinho. Età, infortuni, continuità di allenamento e quindi di impiego, miglioramento, rendimento. Fu il motivo per cui, in accordo col club, tentennarono nella trattativa di rinnovo di Gundogan due estati fa. Quando (tardi) decisero di confermarlo, il tedesco aveva già l’accordo col Barcellona. In Spagna, con la sua leadership, ha portato anche una condizione invidiabile: nessuna partita saltata per infortunio. Così è tornato a Manchester, dove però ha trovato il lazzaretto. Potevano sospettare, Pep e Gundo, che i muscoli di De Bruyne avrebbero scricchiolato ancora ma non potevano proprio sapere che il ginocchio di Rodri li avrebbe abbandonati all’improvviso e che la bronchite e altri malanni avrebbero abbattuto Foden, Aké, Akanji, Stones. Gli appestati (metaforicamente, s’intende) concentrati tutti tra difesa e centrocampo.
Pep lo ha sempre saputo, senza doversi ricordare di Indiana Jones: “Non sono gli anni amore, sono i chilometri”. Il calcio logora chi lo pratica ai livelli più alti, esigenti, pressanti. I prossimi due mesi, la sfida verità con il PSG e quella con il Bruges, ci diranno se il celebre anatema su anni e chilometri vale solo per i calciatori o anche per chi sta in panchina. Se Guardiola, che allena il City da 9 anni dopo aver avuto bisogno di un periodo sabbatico al termine del suo ciclo a Barcellona, ha ancora le energie per trovare le soluzioni innovative-creative-ossessive-compulsive che lo hanno portato sull’Olimpo. Perché proprio plasmando il suo dogma calcistico, dopo aver accarezzato l’idea di una squadra senza difensori di ruolo, è arrivato ad alzare la Champions con la difesa dei quattro centrali Akanji-Stones-Ruben Dias-Aké.
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Vero, si è creato una immagine un po' sopravvalutata, insomma, da profeta. Ma è anche il secondo...