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    Pecci: 'Napoli, la Juve vuole fotterti'

    Pecci: 'Napoli, la Juve vuole fotterti'

    • Marco Bernardini
    Esiste un solo modo per fargli cambiare l’espressione del viso. Quella che, ispirata da un’anima arcobaleno, si porta addosso da sempre. Quella del ragazzino romagnolo un poco guascone, ma solare e schietto come un bicchiere di Sangiovese doc. Quella di uomo sempre coerente con la sua filosofia di vita che gli ha permesso di vivere anziché sopravvivere convinto che il contenitore dell’esistenza fosse sempre mezzo pieno e mai mezzo vuoto. Quella di una persona che, per qualità morali e per doti professionali, avrebbe potuto tirarsela da personaggio e che invece ama passeggiare come uno tra i tanti. Non a parole. Con i fatti.  Ecco il perché dell’eterno sorriso, furbo o amorevole o ironico a seconda delle circostanze, che segnala la presenza di Eraldo Pecci. Un giocatore di pallone che ciascun allenatore avrebbe voluto in squadra. Un compagno di viaggio che, dopo averlo conosciuto, tutti vorrebbero come amico.

    La tristezza è sua nemica giurata. Salvo tirare in ballo i sentimenti. E’ un sistema vigliacco a cavallo di una domanda balorda, lo  so. “Come sta Gigi?”. Stringe le labbra. Forte. Tira su con il naso. Con violenza. Guarda lontano. Fantasmi. E sospira lungo: “Male. Ma proprio male, questa volta. Tre giorni fa l’hanno ricoverato in un Istituto specializzato. Sono stati costretti a farlo. Non parlava più. Piangeva. Poi ha smesso anche di piangere. Una statua che respirava. Ma se la sua mente è volata via, il suo fisico è ancora pieno di energie. E’ sempre stato un uomo forte, Gigi. Di gambe e di braccia. Sicchè, essendo il suo un male che può scatenare anche gesti di violenza, non era stato più possibile lasciarlo in casa con Nerina la sua povera moglie che non lo ha abbandonato in tutta la vita. Ora è in un letto muto e lo sguardo fisso a guardare chissà dove o chissà chi. Poco tempo fa  Pupi, Zac ed io eravamo andati a trovarlo nella casa di Monza.  Non ci aveva manco riconosciuti. Era finita. Che dolore. Che tristezza”.

    Si passa la mano destra davanti agli occhi, come per cacciare una scena insopportabile. Basta. Ha parlato fin troppo Eraldo Pecci del suo “maestro” Gigi Radice. Il sergente di ferro o l’uomo dallo sguardo  di ghiaccio, come veniva definito, con il quale lui e i suoi compagni in granata vinsero uno scudetto memorabile e l’anno successivo ne sfiorarono un secondo. Il regalo più bello alla gente di una città, principalmente torinista, che in quel periodo storico viveva giorni cupi e addirittura da incubo scanditi da attentati brigatisti, lotte operaie, crisi di valori, primi segnali di immigrazione  clandestina, intolleranze classiste, paura anche fisica del domani. Ebbene, una domenica di giugno del 1976 un arcobaleno unì la cima della collina di Superga al prato verde dello stadio Comunale  dove i nuovi campioni d’Italia in granata portavano in trionfo il loro allenatore. In tribuna Orfeo Pianelli, il presidente, piangeva come un bambino.

    Eraldo Pecci ha scritto anche un bel libro, empaticamente coinvolgente, su quella stagione indimenticabile. Pagine nelle quali il calcio fa da cornice alle avventure di un gruppo di ragazzi coraggiosi attraverso le cui azioni si capirà perché “Il Torino non può perdere”. Perlomeno, se al tavolo da gioco nessuno bara. E qui il romagnolo, pacioso e pacione, si fa astuto e diffidente. Si passa la mano sul viso. Eraldo. Sente puzza di bruciato e orticaria sulla pelle. “Quando, anche nel calcio, si muovono i poteri forti devi stare molto accorto perché la fregatura è in arrivo. A me capitò sulla testa un giorno che, con la maglia della Fiorentina alla quale ero arrivato da Torino,, giocavo a Cagliari. Ne accaddero di tutti i colori, a noi in campo, mentre quelli là a Catanzaro vincevano su rigore. Così ci scipparono lo scudetto”. E per “quelli là” naturalmente occorre leggere Juventus. La nemica “storica e giurata” di Eraldo Pecci che, al pari di Aldo Agroppi, vede nella società bianconera (più che nella squadra) una controparte ideologica e persino politica.

    Quarant’anni dopo l’impresa granata, la storia potrebbe ripetersi con uno dei due protagonisti diverso da quello di allora. Il  Napoli di Sarri e del bomber Higuain. Una maglia celeste che Pecci indossò dopo aver lasciato la Fiorentina e con la quale “rischiò” di bissare lo scudetto granata. La malinconia, questa volta, non riesce a cancellare il sorriso. Di pallone si paria, non di amici che stanno male. “Maradona e i miei compagni lo vinsero l’anno dopo. Io ero già venuto via, con la morte nel cuore. Una scelta obbligata. Mi stavo separando da mia moglie e non volevo che i miei figli avessero un padre troppo lontano da casa. Raggiungere Riccione da Bologna dove tornai era un attimo. Da  Napoli no. Altrimenti non avrei mai lasciato quella squadra e quella città dopo appena una stagione.. Se hai la fortuna di capitarci a vent’anni, in quel  luogo rimani per sempre. Del resto, per un calciatore  specialmente, la gente napoletana è l’anima, la forza, il coraggio. Quest’anno sono convinto che i ragazzi di Sarri ce la possano fare. Non vedo similitudini tattiche o tecniche con il mio Toro dello scudetto, Higuain non è Pulici e Insigne non è Graziani. Però la compattezza e lo  spirito di gruppo sono identici ai nostri. Con dietro un’intera città a spingerli. Proprio come fece la Torino granata. L’unico pericolo arriva dall’esterno. Si chiama interesse. Quello dei poteri forti legati alla finanza, all’economia, alla politica, ai grandi trust. Purtroppo sono certo che, ad un punto del cammino, qualcuno  tenterà di destabilizzare il Napoli. Ci hanno provato già con il Bayern di Monaco, prima degli incontri con la Juve, ma quella è una corazzata monolitica a prescindere da Guardiola. Ebbene, la società di De Laurentiis e la squadra di Sarri dovranno dimostrare di essere altrettanto solidi e impermeabili quando, inevitabilmente, scatterà la trappola per fotterli”. E’ Allarme rosso. Anzi, granata….
     

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